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“A mio cognato Otto Albert Hirschmann, nel quale mi era sembrato di ritrovare il mio fratello minore, lascio tutti i miei oggetti personali, che non servano a mia moglie e alle mie bimbe. Affido a mia moglie l’incarico di cercare fra le mie cose qualche oggetto da dare come ricordo a mia suocera Hedwig Hirschmann, a mia cognata Eva Hirschmann, e alle mie tre nipoti Laura, Clara e Susanna Schwartz”.
da “Il testamento di Eugenio Colorni”, Melfi, 2 maggio 1943.
“Solo Eugenio sapeva dire e fare”
Cosa voleva dire veramente Albert Hirschman quando sul finire del secolo scorso (prendendomi da parte alla sua maniera, a bassa voce) mi disse: “solo Eugenio Colorni sapeva dire e fare”?
Solo Eugenio, rispetto agli altri intellettuali ed artisti che nel 1937-8 Albert aveva conosciuto a Trieste, come Eugenio Curiel, Umberto Saba, ed i professionisti del “giro” di Colorni, forniti di un atteggiamento libero, impegnato ed irriverente insieme, che, quasi mezzo secolo più tardi, nella famosa pagina scritta per la sua Laurea Honoris Causa di Torino, Hirschman considera parte decisiva di un ideale micro-fondamento della democrazia.
Solo Eugenio Colorni rispetto a sua sorella Ursula, ad Altiero Spinelli, ad Ernesto Rossi e più in generale ai confinati di Ventotene e poi agli ambienti della Resistenza.
E ancora: solo l’Eugenio (per chiamarlo alla milanese) rispetto ad Albert stesso: perché è probabile che con quell’affermazione egli intendesse anche giustificare il suo percorso personale. Come sappiamo, aveva “fatto molto” da giovane, poi scelse una professione di consigliere economico (del Piano Marshall e del governo e delle imprese della Colombia) che gli consentì di dire e di fare. Ma poi, a partire dai quarant’anni, decise di dedicarsi ad un lavoro intellettuale puro. Certo, in tale attività egli ha avuto una progressione straordinaria, consentitagli (l’ho sempre pensato) dall’aver “fatto molto” in gioventù; mentre Eugenio Colorni – mi disse in un’altra occasione – aveva avuto “troppe idee”, per averle potute elaborare adeguatamente nella sua breve vita. Nonostante ciò il giudizio di Albert resta: una sorta di riconoscimento della superiorità di Eugenio nel saper dire e fare insieme.
Solo Eugenio, bisogna aggiungere – com’era fatto Eugenio: esuberante, vulcanico, ricercatore instancabile, testimone di verità, incoraggiante, coinvolgente, dissacrante…
Infine, è possibile che in quell’occasione Albert intendesse anche ammonirmi nei riguardi della mia pretesa di dire e di fare contemporaneamente, insieme ai miei allievi che aveva incontrato nelle sue due visite napoletane (1994 e 1999).
In altre parole, quella petite phrase (forse) intenzionalmente succinta (perché Albert pensava che la brevità accresce l’efficacia di un’idea) mi è tornata in mente mille e mille volte in questi anni.
E non è quindi sorprendente che emerga prepotentemente ancora una volta nel momento in cui cerchiamo di fondare un Istituto internazionale Colorni-Hirschman.
In primo luogo perché riguarda un aspetto chiave del nostro “brand” e quindi del futuro Istituto. Poi perché, involontariamente, ne possediamo, in un certo senso, l’esclusiva. Nessun altro collettivo, che io sappia, si è posto davvero il problema del dire e del fare alla maniera di Eugenio Colorni (ed ora che il dialogo con i nostri interlocutori, milanesi e stranieri, sta giungendo al dunque, ci rendiamo conto che proprio questo è il punto chiave della discussione: il “saper fare come” che scaturisce dall’integrazione teorico-pratica del lavoro).
Dunque tocca a noi, per quel poco che ne siamo capaci, rinnovare quell’equilibrio delicato, in continuo movimento, tra ricerca ed iniziativa, tra agilità possibilista e mobilitazione delle energie.
Il periodo scelto ed i primi riscontri – nel nostro Paese, in Europa, altrove – appaiono incoraggianti. Ma forse è bene domandarsi, anche solo a livello intuitivo, perché proprio adesso.
Altrove ho proposto alcune ragioni che mi paiono fondate – come riaccendere l’interesse su quel filone di pensiero, cogliere l’opportunità culturale che segue la scomparsa di Albert, evitare la dispersione del nostro lavoro, elevarne l’influenza a tutti i livelli, collegarsi ai giovani leader ecc. Ora vorrei aggiungere una parola proprio su quella famosa lezione colorniana. Perché quanto siamo stati in grado di costruire fin qui a livello teorico-pratico ci pone in una posizione privilegiata rispetto a qualsiasi interlocutore. E perché, d’un canto, mi pare sempre più chiaro che, nonostante i passi in avanti, il lavoro di stimolo rispetto al sistema istituzionale (soprattutto relativo a diversi aspetti dell’equazione italiana che non progrediscono, o non progrediscono a sufficienza) ha bisogno di un retroterra per elevarsi; e perché, dall’altro, il declino del grillismo (che, se ricorderete, avevo previsto fin dal suo apparire) apre indubbiamente nuovi spazi in tutto il Paese per una maggiore mobilitazione delle energie finalizzate al risultato.
Abbiamo fatto una certa fatica a (ri)entrare in quest’ordine di idee, cari amici. Ma ora mi pare che il “richiamo della foresta” colorniana abbia convinto un gruppo importante di noi (e mi sembra che altri potrebbe contagiare)….
Auguri Istituto!
Eugenio e Albert
Rispetto a quanto io stesso ho scritto in proposito (in Imparare ad imparare Cap. 2) la lettura della biografia di Albert Hirschman di Adelman riserva qualche sorpresa.
Mi sono convinto, infatti, che la mia ricostruzione pone Eugenio ed Albert troppo sullo stesso piano.
Tra i due esistevano sei anni di differenza che, soprattutto quando si è giovani, contano, eccome: l’uno era il mentore dell’altro.
Quando arriva a Trieste, Albert viene attratto e conquistato dallo straordinario lavoro intellettuale e politico che stava facendo Eugenio.
E’ Eugenio che domina, infatti, la scena dell’antifascismo triestino: nel dire e nel fare.
Pur vedendosi spessissimo, Albert vorrebbe stargli ancor più vicino.
Dichiara ad Adelman che era un po’ geloso di Eugenio Curiel, perché questi aveva più accesso di lui a Colorni.
Albert impara rapidamente, sia a livello intellettuale, sia pratico.
Diventa (e lo sarà sempre più) uno straordinario cospiratore – maestro nell’arte del dire e non dire.
Ma si accorge ben presto di non avere le capacità del leader.
Non è certo un trascinatore (tanto che finirà, molto più tardi, per trasferirsi all’Institute di Princeton anche per liberarsi dall’insegnamento).
Lavora bene da solo, a tu per tu, o con poche persone.
Il suo fascino e la sua influenza (che poi crebbero nel tempo) sono legate indubbiamente alle sue straordinarie capacità intellettuali (astuzia ed inatteso inclusi) che riuscirà, infine, a sfruttare a meraviglia.
L’ultimo periodo di Eugenio Colorni
Mentre Nicoletta ed io eravamo in Francia a novembre, la Rai ha mandato in onda un cortometraggio piuttosto romanzato su Ventotene. Quel momento è visto “con gli occhi di Altiero” e, quindi, della vulgata europeista corrente.
Comunque, quei fotogrammi (soprattutto i primi) hanno risvegliato in me un interrogativo: come funzionavano effettivamente le cose tra Eugenio Colorni, Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli?
Penso che Eugenio si sia reso conto perfettamente del valore dei suoi due compagni di confino: Ernesto era un economista, allievo di Einaudi (che a sua volta aveva già scritto di federalismo europeo!); Altiero era un politico che veniva dal Pci e si era fatto un bel po’ di galera.
Eugenio, afferma una testimonianza di allora, sopportava il confino pensando. Probabilmente ritenne che il suo compito, rispetto agli altri due, fosse quello di liberarne le energie creative combattendo energicamente ogni stereotipo ed ogni costruzione mentale abusiva. La cosa funzionò, soprattutto con Altiero che nei due anni di dialogo con Colorni fece indubbiamente notevoli progressi. Le sue osservazioni al riguardo sono molto eloquenti.
Naturalmente, Eugenio sviluppò anche idee che non collimavano necessariamente con quelle di Altiero e di Ernesto. Ma la cosa non sembra averlo preoccupato più di tanto.
Altiero ed Ernesto scrissero il Manifesto di Ventotene (che, francamente, non è un gran testo); Eugenio aggiunse l’introduzione (che invece è importante) alla sua prima edizione che uscì a Roma in clandestinità – e tipicamente (per non far pesare la sua maggiore forza intellettuale) quasi si giustificò con i due amici, adducendo ragioni di opportunità per averlo fatto.
Inoltre, è probabile che Eugenio si rendesse conto, a questo punto, che Ursula non teneva il ritmo del lavoro e che stava entrando affettivamente nell’orbita di Altiero (il fascino della politica). Ne soffrì, ma, a quanto pare, non cambiò atteggiamento nei confronti di Altiero. Anche in seguito, di fronte alle enormi difficoltà politiche del tempo, Eugenio cercò di proseguire il dialogo: tentò di portare Altiero all’interno del Partito Socialista e fino all’ultimo, a quanto pare, rimase legato ai suoi due amici.
In altre parole, capì l’importanza del lavoro politico che avrebbero potuto fare Altiero, Ursula ed Ernesto per l’Europa ed il movimento federalista, in un periodo in cui già si intuiva il peso che avrebbero avuto, invece, i partiti ammalati di statalismo e di gregarismo nell’Italia post-bellica.
Quanto ad Albert, il suo atteggiamento rispetto al fare, di cui prima si discorreva, chiarisce anche, a mio avviso, il giudizio scientifico nei riguardi di Altiero (“a story teller”) ed i difficili rapporti che Sarah ed Albert ebbero con “la famiglia” di Roma negli anni del dopoguerra.
La verità era, probabilmente, che, senza il punto di riferimento (e quindi la direzione) di Eugenio, Altiero ed Ursula (ed all’inizio anche Ernesto) si erano imbarcarti nel movimentismo federalista (con tutti i suoi alti e bassi, pro e cro ecc. ecc.). Solo molto più tardi Altiero ed Ursula approdarono al possibilismo ed ebbero un’influenza effettiva sulla sinistra italiana (cosa riconosciuta oggi nell’autobiografia di Giorgio Napolitano). Ma, per il movimento federalista nel suo complesso, quella strada, non più alimentata da una vera forza di pensiero di tipo colorniano, ha prodotto, in seguito, l’euro-entusiasmo ed infine la mesta deriva alla Moavero-Milanesi di oggi.
Ciò mostra, retrospettivamente, – questa è la mia conclusione – quanto sia difficile tenere il timone ben saldo in mano, mentre si insegue via via quell’ “equilibrio delicato in continuo movimento tra ricerca ed iniziativa, tra agilità possibilista e mobilitazione delle energie”.
Provare per credere!
Luca Meldolesi (23 gennaio 2015)