Tornando da Berlino

“Cose che non avevamo ancora capito”
Fortunatamente non si finisce mai di imparare.
Dalla biografia di Hirschman di Adelman avevo appreso che, durante la guerra, trovandosi in Nord Africa prima di sbarcare in Italia, Albert aveva letto The Road to Serfdom di Friedrich Hayek, il noto economista ultraliberale; ed aveva scritto alla moglie Sarah in America di essersi reso conto di aver vissuto in Europa in un ambiente, in un certo senso, “collettivista”.
Eppure, finora non avevo riflettuto sul fatto che questa spinta a favore dell’individuo di Albert, che indubbiamente ha avuto un ruolo importante nella sua esperienza, non prese la strada tipica dell’economista – quella dell’homo oeconomicus, per intendersi. Al contrario, diventò parte integrante di quel consigliere economico (advisor) e poi di quello scienziato sociale morale e “probo” straordinariamente dotato di cui parla Wolf Lepenies.
Infatti, scomparso Eugenio Colorni, e non trovandosi a suo agio con Altiero Spinelli, Albert decise di “andare avanti da sé”, di sfidare il mondo intero con le sue sole forze, come apolide di cittadinanza americana.
Questa osservazione risulta decisiva per capire (ed apprezzare) una serie di stratagemmi (ed anche di piccinerie poco generose) altrimenti incomprensibili, che egli ha poi utilizzato a lungo nei suoi rapporti interpersonali.
Uno di questi è stato il silenzio. Noi democratici abbiamo la tendenza a spiattellar le cose. Albert non era così. Era riservato, di poche parole. E, se riteneva che un’informazione avrebbe potuto nuocergli, diventava praticamente impossibile fargliela uscire dalla bocca. Ad esempio, solo con il suo ultimo libro (1998) ho appreso delle sue disavventure con il Tesoro americano durante il Piano Marshall. Eppure, egli aveva letto – è chiaro – con grande attenzione quanto avevo scritto anni prima in italiano (e poi in francese, inglese, spagnolo) su quel periodo della sua vita. E non mi aveva detto proprio nulla!
Un altro stratagemma: non voleva limiti alla sua libertà di movimento ed alle sue decisioni, che considerava, in un certo senso, suoi diritti costituzionali assoluti. E non si domandava, per esempio, se la mancata consultazione di uno dei suoi amici su un determinato argomento avrebbe arrecato a costui un qualche dispiacere…
Un terzo stratagemma lo conduceva a delimitare attentamente i rapporti interpersonali con i suoi amici ed interlocutori (un po’ come faceva con il suo lavoro scientifico), in modo da poter tenere le fila di una rete di scambi intellettuali molto ampia centrata su temi specifici (quelli che lo interessavano al momento): in tre continenti e più. Ciò aveva, però, un suo rovescio della medaglia, perché significava anche una predilezione dei rapporti verticali, rispetto a quelli orizzontali. Vale a dire, non solo non curava la comunicazione tra ambienti diversi: se non la riteneva necessaria, preferiva impedirla (forse perché temeva che gli avrebbe confuso le acque).
E’ accaduto così che la nostra stessa “predilezione colorniana” (assente altrove) ci aveva tenuto un po’ in disparte nel suo “giro”, soprattutto nella vita dell’Institute for Advanced Study. Certo, Nicoletta ed io siamo stati ospiti numerose volte, soprattutto quando stavo scrivendo il mio magnus opus. Ma solo oggi, in sede storica, ci accorgiamo come stavano effettivamente le cose; ed in particolare l’importanza che aveva assunto nella School of Social Science dell’Institute il triangolo AOH-Geertz-Lepenies a cavallo degli anni Settanta-Ottanta (e quindi già prima dell’inizio della nostra collaborazione).
D’altra parte, retrospettivamente, era logico che fosse così. Basta domandarsi: era possibile che non si occupasse della “questione tedesca” la scuola di scienza sociale di quell’Istituto fondato da Einstein (che all’inizio degli anni Trenta abitava proprio a Berlino Wilmerdorf: il nostro quartiere)?
No, non era possibile.
Semplicemente… non l’avevamo capito; non l’avevamo saputo!
 
“Albert, Clifford e Wolf”
Come è noto, Jean Monnet ha svolto un ruolo chiave nella politica alleata degli armamenti della Seconda Guerra Mondiale (e persino della Prima!). Al termine di quella terrificante tragedia umana ha sostenuto che la condizione della Francia (e possiamo aggiungere dell’Italia, della Polonia ecc.) è diversa da quella degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Perché questi ultimi paesi, se le cose europee non vanno loro a genio, possono sempre tirarsi indietro, mentre, per ragioni geografiche, la Francia (insieme all’Italia ecc.) non può farlo. Conclusione: si tratta, volenti o nolenti, di trasformare quella necessità in virtù….
E’ uno schema logico che, indubbiamente, si trova alla base di una parte importante delle correnti pacifiste, anti-nazionaliste e federaliste continentali europee del dopoguerra, e che ha finito per avere un ruolo significativo nella costruzione di ciò che oggi chiamiamo Ue e Uem. Ma bisogna stare attenti a non semplificare la questione (o addirittura a banalizzarla), perché in tal modo si rischia, come spesso accade, di non capire i problemi che abbiamo di fronte e quindi di eludere i compiti che ne derivano.
E siccome “la lingua batte” con quel che segue, vengo all’oggi. Cos’è – mi son domandato mille volte – che rende così ostico il cammino della zona euro? Cos’è che impedisce una gestione più ragionevole e soddisfacente dell’Uem? Certo, il governo tedesco attuale e quello che l’ha preceduto hanno finora trovato (per così dire) “expedient” agire come hanno agito. Vale a dire: negando, più che proponendo, insistendo su interpretazioni rigoriste dei trattati e sulla necessità della loro rigida applicazione, cavalcando pregiudizi e paure ataviche, mostrando una scarsa considerazione per gli altri e così via. Certo, quei governi hanno assecondato convenienze nazionaliste di dominio, hanno rischiato di ri-accreditare vecchi stereotipi, fantasmi del passato ecc. Ma dovremo pur domandarci perché tutto ciò si afferma; e comecostruire (eventualmente) vie d’uscita rispetto ad una situazione che molti considerano preoccupante. Non è così?
Non ho la pretesa di fornire qui una risposta esauriente (se non altro, perché ad una questione come questa che non ci dà requie ho ormai cercato di rispondere più volte, e sempre parzialmente, nel mio lavoro: le ultime si trovano nel Cap. 4 di L’ultimo Hirschman e l’Europa e nel Cap. 4 di Italici e città). Ma indicare una strada in più, utile a capire, sì: mi pare un legittimo desiderio.
Riprendo allora il ragionamento dal passo seguente di un’intervista di Albert a “Evenement du jeudi” (25 maggio 1995): “E’ assolutamente necessario – egli ha detto – che l’Europa prosegua il suo cammino verso una più grande unità e mantenga la Germania addossata (addossée) ad essa. Ciò di cui ci si può dispiacere è che essa non abbia sviluppato un sentimento culturale sufficientemente forte tra i cittadini d’Europa. Si è insistito troppo sull’aspetto economico pensando che il resto sarebbe venuto da sé”. Siete d’accordo [allora] con Robert Schuman che diceva “se si dovesse ricominciare, inizierei dalla cultura”? – domanda l’intervistatore. “Sì, assolutamente”.
D’accordo – si potrebbe obiettare: ma tutto sta nel significato che Albert attribuisce al termine “sentimento culturale”. E siccome le affermazioni di Hirschman hanno sovente un riferimento implicito alla propria esperienza, val la pena di affrontare un piccolo “detour” per andare dietro le quinte della questione. Propongo, in proposito un balzo all’indietro di un quarto di secolo (rispetto al passo appena richiamato) per cercare di capire la decisione di Hirschman dei primi anni Settanta del secolo scorso di trascorrere un anno sabatico presso l’Insitute for Advanced Study di Princeton a scrivere The Passions and the Interests, dopo il grande successo di Exit, Voice, and Loyalty. Probabilmente, si rese conto che conveniva sfruttare il momento favorevole per puntare più in alto.
All’Institute divenne amico di Clifford Geertz, il grande antropologo, che gli propose di trasferirsi lì, lasciando Harvard. Albert accettò, contro il parere della moglie Sarah che lo seguì a malincuore. Con Cliff, Albert gettò le basi di una straordinaria partnership che caratterizzò l’intera esperienza della scuola di scienza sociale dell’Institute degli anni Settanta ed Ottanta. Scrissero anche insieme due brevi testi programmatici del 1977 (di cui ho dato notizia nella Premessa e nel Cap. 4 di L’ultimo Hirschman): in uno (che sembra scritto da Geertz) si criticano alcuni aspetti delle scienze sociali americane e si propone di imparare anche da numerosi autori europei; nell’altro (che sembra vergato da Hirschman) si proponeva una collaborazione con la scuola di studi storici dell’Institute per collegare le analisi delle società a quelle del cambiamento su alcuni temi – come rivoluzione, declino, arretratezza, successo ecc.
Se non ci fosse stato Clifford Geertz, ha sostenuto Wolf Lepenies recentemente, Albert (apolide di origine tedesca) sarebbe stato “un alieno” in quell’ambiente. Invece, insieme, i due rappresentavano una coppia formidabile. Nei seminari del pranzo (lunch seminar) in cui gli ospiti annuali  dell’Institute (docenti giovani e meno giovani) presentavano a turno il loro lavoro (mente gli altri mangiavano), Cliff teneva il banco della discussione, fino al momento in cui Albert decideva di intervenire. Mentre tutti si sforzavano di avanzare osservazioni intelligenti, ad Albert veniva naturale sorprendere gli astanti: era facile prevedere… la sua imprevedibilità.
A questo punto, sul finire degli anni Settanta, è entrato in scena Wolf Lepenies, sociologo e storico della cultura di Berlino. Si fermò all’Institute per tre anni. Geertz cercò di cooptarlo. Wolf accettò; ma poi problemi organizzativi e familiari lo spinsero a desistere. Wolf scrisse all’Institute Le tre culture. Sociologia tra letteratura e scienza che uscì poi in tedesco nel 1985 (ed in italiano nel 1987, tradotto bene da Giuseppina Panzieri, la moglie di Raniero). Ad esso fece seguire nel 2006 The Seduction of Culture in German History, dedicato alla scuola di scienza sociale dell’Institute a cui evidentemente egli si sente ancor oggi personalmente legato.
Il cuore di questi due libri importanti è evidentemente una valutazione critica della cultura tedesca.
Val la pena di impegnarsi a leggerli (soprattutto le parti che riguardano la Germania).
Cosa se ne ricava?
Che francamente, finora, Nicoletta ed io ne avevamo capito poco o nulla: “fagioli”, si dice in America!
 
Albert, la Germania e l’Europa”          
Eugenio Colorni ha sviluppato la teoria dell’antropomorfismo; mentre Albert ha sostenuto che bisogna coltivare il piacere di ributtar giù il masso: delle fatiche di Sisifo. Ne parleremo meglio in un’altra occasione. Comunque, è vero che, in questa tradizione di pensiero tanto “intrigante”, il dubbio ha un grande ruolo: bisogna fare ogni sforzo per liberarsi delle idee (proprie o ereditate) che non corrispondono alla realtà effettiva delle cose. Personalmente, mi è accaduto più volte – talvolta tramite processi lunghi e sofferti; talaltra, invece, brevi ed allegri (ricordate la nascita de Il giuoco degli dèi?). Questa volta si è trattato di un misto: dell’uno e dell’altro.
Innanzitutto perché esiste il Italia il mito della cultura classica tedesca – soprattutto filosofica. Hai voglia a ricordare la rivoluzione colorniana in materia! Tanto alcuni amici e parenti (tra quelli più dotati, naturalmente!) studiano il tedesco per poter accedere ai testi in lingua originale. Tanto alcuni giovani intellettuali si sono “piazzati” a Berlino, e non ci vogliono neppure vedere…
Evidentemente, mi son detto, non dobbiamo fare “i pastori delle meraviglie” (si dice a Napoli: tipo quella segretaria di un Dipartimento di Sociologia che, sentendosi beneficata, teneva dietro le sue spalle una foto di Max Weber!). Si tratta, in realtà, di una tendenza all’idolatria culturale che presuppone, più o meno consapevolmente, una separazione della cultura tedesca dalla politica e dalla storia della Germania. Ma come è possibile? Le tragedie che conosciamo sono state prodotte forse in un’atmosfera culturale del tipo rose e fiori? Non solo: si potrebbe dir di più. Perché quell’atteggiamento “estatico”, nato probabilmente da un’esigenza di evasione “colta” dalla propri realtà, potrebbe essere un riflesso inconsapevole d’importazione; ovvero di quella “seduzione della cultura nella storia tedesca” di cui parla Wolf Lepenies, che conduce all’estraniazione dai fatti terreni. E che, quindi, è all’origine di tanti guai…
Naturalmente, con questo non intendo cadere dalla padella nella brace. La cultura tedesca dell’Otto-Novecento ha avuto un peso troppo rilevante nella scena intellettuale complessiva dell’Occidente per permettersi di ignorarla. Bisogna guardarci dentro: da tanti punti di vista diversi. Dopo il Sessantotto – mi ha detto Claus Offe con legittima soddisfazione – ogni aspetto della vita tedesca del Novecento (e dunque anche ogni aspetto dell’immane tragedia storica che l’ha caratterizzata) è stato discusso in modo impietoso: dal quotidiano, al pensiero. E’ stato un grande “moto di libertà” che ha messo radici e che ancor oggi ci spinge a cercare a Berlino i piccoli monumenti minimalisti della persecuzione degli ebrei. (Questa volta, ad esempio, Nicoletta ed io siamo andati a Grunewald da dove partivano i vagoni piombati dello sterminio). Bisogna tener presente tutto questo per capire l’ispirazione e l’importanza del lavoro di Wolf Lepenies, che Geertz ed Hirschman hanno discusso (ed in un certo senso supervisionato) e che guida il lettore in meandri, a noi spesso sconosciuti e paradossali, della cultura tedesca dell’Otto-Novecento – sia in quanto tale, sia in un rapporto di rivalità (talvolta grottesca) con l’evoluzione della cultura francese ed inglese.
Qui, – l’ho avvertito all’improvviso – esiste davvero un bandolo dell’intricata matassa che ci consente di progredire contemporaneamente su molti piani.
Per esemplificare, cito innanzitutto quello dell’empatia: perché, quando si legge e s’incontra Lepenies e poi, magari, si cerca, come ci è capitato, l’alberghetto dove scendeva Eugenio per andare a studiare alla Staatbibliothek prima ancora d’incontrare Ursula ed Albert, si sente che ogni barriera viene meno e che il cammino potrebbe effettivamente riprendere. Bisogna apprezzare in primo luogo (e condividere) il travaglio straordinario, lo sforzo addolorato della nuova narrazione culturale nazionale tedesca che sta emergendo in Germania e che ha reso Wolf “molto famoso” – ci ha detto un nostro angelo custode: Andrea Schmelz, storica e cooperatrice internazionale di Berlino.
Poi bisogna accennare all’Europa: perché è chiaro che l’ulteriore costruzione Ue ha bisogno innanzitutto di verità. Data la situazione, non si può certo pretendere, come pensa Angelo Bolaffi, che la Germania guidi l’Europa. Al contrario, bisogna capire che bisogna accrescere la collegialità della sua direzione; che la presunzione francese, come la crisi (e dunque le assenze ed i ritardi colpevoli) dell’Italia sono corresponsabili della situazione che si è creata; che uno spiraglio esiste solo in uno sforzo di lucida e onesta chiarezza, ed in un’éntente corali; che in quella prospettiva potrebbe persino verificarsi un certo “contrappasso”, perché la critica della Grosse Koalition che si avverte a Berlino vede oggi con una certa simpatia il governo italiano…
Una parola infine sulla cultura. L’affermazione di Hirschman sul “sentimento culturale” europeo del 1995 citata nella lettera precedente sottintende, a mio avviso un’ipotesi. Albert l’ha avanzata quella proposizione dopo essere “rientrato” nella cultura tedesca (ed aver vinto il primo premio per un saggio scritto in lingua tedesca: quello famoso sul destino della DDR). Penso che quell’idea fosse riferita anche a se stesso. Vale a dire, che, a partire da un convegno sul suo lavoro a Berlino che stava preparando con Lepenies con grande cura, la sua intenzione (l’ho già scritto in L’ultimo Hirschman) fosse di riproporre la sua intera esperienza intellettuale come contributo per cominciare a colmare quel deficit di “sentimento culturale” comune che egli aveva rilevato in Europa.
A vent’anni di distanza il problema resta aperto; e (forse) può persino suggerire un topolino – come A Colorni-Hirschman International Institute