Venti del Sud n. 14 – Luglio 2022

Venti del Sud n. 14 – Luglio 2022

Dal possibilismo ai processi decisionali democratici: sogno o son desto?

di Bruno Baroni

 

Bruno Baroni è il Coordinatore Ragionale dei responsabili di Monitoraggio e Valutazione per il Sud Est Africa – di AVSI,  una ONG internazionale che gestisce progetti di sviluppo. Bruno ha lavorato principalmente in una serie di paesi dell’Africa, e ha una conoscenza diretta di questi Sud. Nella sua attività di valutatore ha sperimentato autonomamente, e creativamente, metodi diversi da quelli tradizionali.  In polemica con le “teorie del cambiamento”, elaborate dall’alto e spesso inadeguate, Bruno ha sviluppato l’idea della “pratica del cambiamento”,  riscoprendo sul campo e reinterpretando alcuni aspetti del possibilismo hirschmaniano.

 

Idee chiave

  • La flessibilità come via maestra della innovazione
  • Mobilitare la conoscenza diretta del contesto e il protagonismo del personale impiegato nella implementazione dei progetti di sviluppo
  • Favorire processi incrementali piuttosto che salti radicali
  • Dal “dare voce” al “dare forza decisionale” al protagonismo degli attori locali
  • Scetticismo per soluzioni pre-definite, atteggiamento open-ended

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La flessibilità come via maestra dell’innovazione

Mi chiamo Bruno e da cinque anni mi impegno in qualità di esperto di Monitoraggio e Valutazione (M&V) per promuovere l’impiego della valutazione in AVSI Foundation, una delle più importanti ONG in Italia, attiva in circa trenta paesi con più di 350 progetti di cooperazione e sviluppo per un totale annuale di 90 milioni di Euro di budget. Il valore di questa esperienza risiede principalmente in un aspetto: sono stato tra le prime persone a ricoprire questo ruolo in AVSI e non sono stato per nulla timido nell’approfittare della libertà che questa circostanza mi ha offerto.

Ho lavorato prima e principalmente con la squadra impegnata in Sud Sudan, contribuendo a trasformare il portafoglio progetti. Da meno di 1 milione di euro di interventi, per lo più di durata annuale come prestatori di servizi per le Nazioni Unite, siamo passati a quasi 5 milioni di budget, con 4 progetti pluriannuali finanziati da donatori bilaterali, compreso un progetto di resilienza di 5 anni da 8 milioni di euro finanziato dalla cooperazione Olandese, ottenuto dopo due anni di dialogo tecnico. L’intera esperienza viene descritta dalla dirigenza dell’AVSI come un caso di successo, unico nell’ utilizzo del M&V come elemento di interlocuzione con i donatori.

Dopo aver allargato la mia collaborazione alla Repubblica Democratica del Congo (DRC), da quasi due anni, assieme al Sud Sudan supporto altri 5 paesi dell’East Africa (più il Mozambico), che presi assieme rappresentano il 35% del budget annuale di AVSI. In questa veste, oltre a divulgare schemi di lavoro sviluppati in Sud Sudan, mi sforzo di promuovere delle pratiche di M&V, una curiosità, ed un grado di flessibilità tali da rafforzare le capacità specifiche di questi 7 gruppi di lavoro, ognuno sorprendentemente differente l’uno dall’altro. In effetti, anche se raggruppati in una regione, si tratta di paesi molto diversi, con esperienze coloniali e post coloniali del tutto dissimili, come provato dalle lingue ufficiali in questi paesi — l’arabo, il francese, l’inglese e il portoghese.

Infine, da circa 3 anni consiglio la responsabile dell’ufficio centrale “Learning and Sharing” e membro del direttivo AVSI (recentemente iscrittasi all’AIV). Oltre a dare visibilità al lavoro condotto in Africa, questa attività mi permette di comprendere l’organizzazione AVSI nella sua essenza e complessità, e da qui di  sviluppare un linguaggio adatto a coniugare le pratiche del M&V ai concetti che ispirano la visione e la missione di AVSI. È una mia convinzione che per svolgere appieno la sua funzione, la valutazione debba saper entrare nell’intimo della ragione d’essere e nella costruzione valoriale delle organizzazioni.

Tutte queste funzioni le sono andato sviluppando io stesso, assieme ai colleghi, senza seguire un piano premeditato, o delle linee guida, ma a seconda dell’opportunità offertesi a mano a mano. In effetti, l’introduzione del M&V ha richiesto di lavorare su diversi ambiti: assicurare risorse, stabilire funzioni, introdurre nozioni, ridefinire modi di lavoro, oltre che promuovere una cultura (leadership ed ethos diffuso). La mancanza di una codificazione precisa del ruolo interno di un esperto di valutazione, unita ad una certa reticenza di AVSI nel seguire schemi standardizzati, ha offerto un grado di flessibilità sufficiente a lavorare sui diversi piani: quello più operativo, quello del coordinamento e anche su quello della pianificazione strategico-organizzativa.

Una certa debolezza di capacità tecnico istituzionale, che certo ha posto più di un ostacolo, è stata più che controbilanciata da un ricorso al possibilismo: un atteggiamento aperto ad approfittare delle opportunità e bypassare le difficoltà, ridefinendo di continuo il passo successivo, senza timore di seguire un percorso più zigzagante che lineare, in alcuni casi quasi inverso rispetto a quelli comunemente adottati. In molti casi ho seguito un percorso per cerchi concentrici, mobilizzando ad ogni passaggio capacità fino a prima latenti, riuscendo così a tenere testa alla sfida che pone qualsiasi innovazione: la necessità di, contemporaneamente, “fare per imparare ed imparare per fare”. E’ stata questa propensione – piuttosto che un piano di lavoro predefinito – a guidare la mia attività.

La valutazione come immaginazione del possibile e costruzione delle capacità dal basso verso l’alto.

Una visione del divenire possibilista ha influenzato anche il mio lavoro più squisitamente valutativo. Ripercorrendo l’introduzione alla valutazione ricevuta dalla professoressa Judith Tendler, [1]  semplificata nella domanda “che cosa ti ha sorpreso / che cosa hai imparato / che cosa farai diversamente?”, il primo passo è stato quello di introdurre una pratica di valutazione capace di coinvolgere un ampio spettro di colleghi nella identificazione dei risultati non attesi dei progetti. Battezzata “Pratica del Cambiamento”, in polemica con teorie del cambiamento spesso (molto) inadeguate al contesto, si basa sull’osservazione diretta e la riflessione del personale sul campo impegnato nella implementazione dei progetti. In prima istanza permette di identificare indicatori di cambiamento più appropriati al contesto, rimanendo quindi nell’ambito del monitoraggio basato sugli indicatori — il principale riferimento ai temi del M&V degli operatori dello sviluppo – e così permettere ai colleghi di capire ed appropriarsi rapidamente della tecnica. Se il punto di partenza fa riferimento a qualcosa di familiare, il tema degli indicatori e il questionario di monitoraggio, il processo introdotto ambisce a portare ad una trasformazione tanto incrementale quanto radicale: partendo dall’esperienza diretta acquisita sul campo in prima linea, apre la strada ad una comunicazione dal basso verso l’alto; áncora la riflessione al divenire (l’emergente, il complesso) e proietta l’immaginazione sul possibile (il poco probabile quanto realistico in un determinato contesto). Anche qui, si fa leva sulla mobilizzazione di energie e mezzi comunemente lasciati inutilizzati: la conoscenza qualitativa e il protagonismo del personale impiegato nella implementazione dei progetti, dove il learning-by-doing è la vera moneta di scambio. Il risultato è un processo capace di autosostenersi, con al suo centro lo sviluppo professionale dei colleghi sul campo, in particolare della loro capacità di riflettere criticamente, possibilmente l’elemento più essenziale per qualsiasi processo di trasformazione sostenibile, cambiamento sistemico, accountability, localizzazione, decolonizzazione – non c’è che l’imbarazzo della scelta! Infine, elemento immediatamente tangibile – perché di questo vivono i processi di cambiamento –, facilita l’identificazione dei risultati positivi dei progetti, cosi da rinnovare ulteriore la spinta allo sforzo di M&V.

Anche in questo caso, l’aspetto vincente è quello della flessibilità capace di fare necessità virtù.[2] Mettendo in secondo piano teorie e procedure poco conosciute da chi lavora sul terreno, e, al contrario, facendo leva sul punto di forza dei colleghi, in particolare la loro conoscenza diretta del contesto, la Pratica del Cambiamento viene adottata facilmente dai gruppi di lavoro più diversi e porta ad una sperimentazione dal basso foriera di risultati utili ai diversi contesti ma anche per l’intera organizzazione. In effetti, la sua applicazione nei diversi paesi ha portato ad una diversità di risultati positivi, tutti importanti, ma ancora di più rilevanti se poi condivisi e messi a sistema. In alcuni casi si è arrivati a delle forme semplici di “valutazioni di impatto” (confronti prima-dopo il progetto, ma basati su indicatori contestualizzati), in altri ha permesso di identificare punti per la guida del lavoro dei valutatori indipendenti, in altri ancora ha portato alla identificazione di buone pratiche che, condivise con i donatori, hanno permesso di migliorare progetti in corso, infine in altri casi ha “semplicemente” contribuito al rafforzamento del personale responsabile del M&V, compreso la loro capacita di collaborare con altri gruppi di lavoro di AVSI, con una ricaduta positiva per una larga parte dell’organizzazione. Nel caso del Sud Sudan, si è riuscito a giustificare un disegno più flessibile dei progetti basato sul coinvolgimento progressivo delle comunità.[3]

La duttilità di una pratica che, in modo del tutto opposto rispetto ad altre mainstream, specifica in modo abbastanza preciso come cominciare a farne uso – costruendo sui propri punti di forza – mentre lascia aperta alla sperimentazione la definizione del risultato che si vuole raggiungere, ha facilitato la sua adozione in 4 paesi in meno di un anno, senza bisogno di budget dedicati o promozione da parte della dirigenza, in alcuni casi anche solamente con delle spiegazioni da remoto (causa restrizioni del COVID). In confronto, pratiche molto più banali, e proposte come prioritarie, registrano resistenze, ritardi ed incomprensioni. Forse, questa differente sorte si deve, oltre che alla maggiore flessibilità della Pratica del Cambiamento, ad una certa affinità con la natura e missione di AVSI, che tanta enfasi pone sull’incontro con l’altro come scintilla del protagonismo della persona, il confronto con la realtà come spinta a realizzare il bene comune, la voglia di andare oltre il contingente (il singolo progetto) come causa prima dell’agire umano. Un allineamento più stretto delle pratiche di M&V ai valori  delle organizzazioni offre un vantaggio per tutti: il valutatore incontra minore resistenza al cambiamento e la organizzazione si sente rafforzata nella propria missione – un vantaggio che continua a sfuggire a chi continua a raccomandare l’utilizzo di tecniche di valutazione value-free ortodosse, cosi come a coloro che si affidano a tecniche tanto complesse ed ambiziose quanto calate dall’alto e poco adattabili ai casi concreti.

Misurata in base alla capacità di coinvolgere alla riflessione un ampio numero di colleghi (impiegati nel M&V ma anche nella implementazione, in alcuni casi anche nel disegno dei progetti), la Pratica del Cambiamento sembra registrare un discreto successo. Ma non basta. Per uscire dall’autoreferenzialità e autocompiacimento dobbiamo accettare la sfida nella sua interezza riconoscendo che i processi partecipativi, cosi come rendere conto alle comunità, sono strumentali ad un risultato ben più ambizioso: modificare il processo di formulazione dei progetti e con esso passare dal dare voce al dare forza decisionale al protagonismo degli attori locali. Bisogna fare i conti con la tanto nominata quanto poco affrontata localizzazione. Essere coraggiosi richiede non altro che domandarci: la Pratica del cambiamento, o per meglio dire una sua evoluzione, può uscire dall’alveo della valutazione e portare ad una trasformazione più completa nel modo di progettare e quindi di pensare il compito stesso dell’aiuto allo sviluppo?

Reinventare la progettazione (nel solco del Gattopardo)

C’è qualcosa che accomuna la mia esperienza in AVSI, la Pratica del Cambiamento, fino al mio lavoro quotidiano nella formulazione di strumenti di ricerca: uno scetticismo per soluzioni predefinite ed un atteggiamento volutamente “open-ended”. Quella intuizione, verificata di continuo nella pratica, per cui mantenere un certo grado di incertezza nell’agire permette alla realtà di suggerire delle soluzioni tanto adatte alla situazione quanto impensate fino ad un attimo prima. Di recente ho ritrovato questa idea nel concetto di possibilismo.

Forse dovuto ai miei studi di statistica, mi ha colpito la descrizione dell’attitudine possibilista in giustapposizione con il pensiero probabilistico. Hirschman ci ricorda che “se non è animato dalla passione per ciò che è possibile, piuttosto che affidarsi a ciò che l’analisi fattoriale ha certificato come probabile, il ricercatore non sarà in grado di capire le situazioni concrete in cui le persone hanno risolto i problemi in cui si trovano”.[4] Questa affermazione è molto più concreta di quanto si potrebbe pensare, e calza molto con la mia esperienza professionale, in particolare con i risultati più entusiasmanti che mi è capitato di identificare come valutatore di progetti. Mentre i progetti di sviluppo portano quasi immancabilmente ad un mix di risultati, alcuni incoraggianti, altri accettabili, altri sotto l’aspettativa, in molti progetti è possibile riscontrare dei buoni risultati che però, a ben vedere, sono legati ad una serie di circostanze molto specifiche, in molti casi uniche. Il punto è che, mentre chi pensa al singolo progetto è portato ad ascrivere tali accadimenti a delle semplici devianze dalla regola, e perciò da ignorare, chi si occupa di sviluppo – inteso come qualsiasi cosa che va dalla risoluzione di problemi per il sostentamento  di una famiglia fino alla emancipazione di intere comunità o nazioni – ravvisa nell’accumularsi di queste singolarità un elemento essenziale, forse l’elemento essenziale dei processi di sviluppo degni di nota.

Il problema con un certo modo di pensare e promuovere lo sviluppo risiede nel non tenere conto di questa natura contingente ed eccezionale del progredire. Si fa eccesivo affidamento a delle teorie del cambiamento anche di fronte alla constatazione che i progetti ben riusciti sono spesso il risultato di una miriade di accadimenti, molti non intenzionali o previsti, e ciò nonostante riconosciuti e sfruttati al momento giusto. I quadri analitici del M&V che promettono di aprirsi alla complessità introducendo elementi di accountability, localizzazione, etc., per quanto si sforzino, cadono spesso nello stesso errore di affidarsi a degli schemi disegnati a tavolino e sempre tesi più ad ordinare “il mondo” che a descriverne le diverse realtà con le loro singolarità in continua evoluzione. Gli approcci più convenzionali sono così tanto animati da uno sforzo teorico teso ad indentificare dei processi capaci di introdurre delle discontinuità, che divengono insensibili allo studio del punto di partenza più adeguato a ottenere tali cambiamenti. Nei casi più gravi addirittura imbrigliano i processi, soprattutto la comunicazione, al punto tale da complicare, piuttosto che favorire, la promozione di processi di cambiamento autoctoni e sostenibili (community-driven and durable)[5].

Andrebbe affermato senza troppi giri di parole che il costante richiamo alle best practices, analizzate ed intese quasi sempre al di fuori e a prescindere dal contesto in cui è maturato il loro successo, termina spesso nel funzionare più da ostacolo che d’aiuto. A prescindere dal merito dei diversi modelli, in alcuni casi ispirati ad una visione meccanicistica, in altri casi dotati di un marco più olistico, il problema risiede nella conclusione che i più tendono a trarne: e cioè che la tecnica sia più centrale che la realtà in cui la stessa è emersa: e che siano  irrilevanti la genesi, il contesto, e  qualsiasi cosa ascrivibile al poco probabile – richiamando la definizione di Hirschman. Paradossalmente, la complessità delle  best practices più sofisticate – vedi la promozione di processi di accountability e di localizzazione, etc. — fa crescere l’attenzione sulle tecniche ed allontana quella sui contesti; nonostante le migliori intenzioni, si parla molto del cosa e molto meno del come. Nel mentre, cresce il rischio di passare da una nuova best practice ad un’altra senza aver capito come realizzarla nel concreto, di impegnarsi nel cambiare tutto senza riuscire a cambiare nulla.

Dalla Pratica del Cambiamento alle sensibilità al Possibilismo

In linea con l’esperienza descritta in queste pagine, per promuovere una pianificazione possibilista si ritiene utile evitare l’introduzione di processi complessi e di procedere invece rendendo più flessibili (open-ended) i processi esistenti provando ad ancorarli alla (e fare leva sulla) complessità ma anche la concretezza della realtà. Per fare ciò bisogna immancabilmente promuovere processi dal basso verso l’alto. Per farlo con efficacia, bisogna riconoscere che dare spazio a processi dal basso richiede diminuire, non aumentare, il grado di controllo e determinazione dei processi, cosi lasciando alle realtà sul terreno e le persone coinvolte in esse di avere la possibilità di contribuire davvero a plasmarle. In una certa misura, si tratta di confrontarsi con una constatazione che sembra una ovvietà ma che non viene quasi mai assunta del tutto perché in contrasto con la idea della gestione che segna il nostro quadro analitico: non esistendo regole prestabilite sempre valide,  l’eccezione alla regola può essere altrettanto significativa (ed essenziale da comprendere) che la regola stessa. A ben vedere non si tratta di alcuna novità: la risoluzione di problemi complessi ha sempre richiesto un forte grado di adattabilità alle situazioni specifiche, e ciò viene facilitato più dalla mancanza di regole stringenti e predefinite, che da intenti codificati – la vitalità della economia informale od il funzionamento dei processi evolutivi sono solo alcuni esempi di realtà che esistono tutto intorno a noi ma che evidentemente colpiscono un punto cieco del nostro intendimento.

Sempre in continuità con quanto già esposto, si ritiene utile la promozione di processi incrementali piuttosto che salti radicali. Invece di introdurre pratiche del tutto innovative, sembra più valido ragionare su come modificare quelle già in essere, creare lo spazio per la crescita di una domanda di cambiamento, unita ad una capacità propositiva. La Pratica del Cambiamento coinvolge chi implementa i progetti cosi da modificarne l’esperienza diretta, di farli misurare con la riflessione e lo scambio di informazioni e lezioni apprese, e con questo far crescere una domanda di valutazione (oltre la mera rendicontazione dello stato di avanzamento dei progetti). Per andare oltre la sfera della valutazione sarebbe essenziale coinvolgere i responsabili della pianificazione dei progetti nella esperienza della natura contingente del cambiamento e dello sviluppo.

Per avvicinare i responsabili della pianificazione e quelli della implementazione, un espediente potrebbe essere quello di mettere al centro della riflessione un progetto di lunga durata (ad esempio quello finanziato dai Dutch in Sud Sudan) che faccia da spina dorsale e il cui perfezionamento ispiri il disegno di altri progetti. Questo obbligherebbe chi si occupa di programmazione a partire dalla osservazione della realtà, dall’analisi dell’inatteso in relazione ad un progetto in divenire. In altri casi, si potrebbe fare leva su semplici e successivi progetti orientati ad aiutare una stessa comunità ben circoscritta, e come ciò  rende evidente la necessità di modifiche al cambiare delle condizioni nel tempo – per esempio l’aiuto agli agricoltori comincia con la promozione della produzione, procede aiutando la commercializzazione, e si sviluppa aiutando la trasformazione. Anche qui, il tentativo sarebbe quello di utilizzare un M&V flessibile tipo la Pratica del Cambiamento per identificare punti di svolta, opportunità non identificate inizialmente, sorprese rispetto a teorie del cambiamento formulate con troppa disinvoltura. Cionondimeno, l’obbiettivo ultimo in questo caso sarebbe quello di coinvolgere chi si occupa della pianificazione nella riflessione sui cambiamenti e la loro natura contingente.

Quale sia la strada migliore da seguire per passare da una valutazione ad un processo decisionale e programmatico più aperto al possibilismo, è evidente, varierà da situazione a situazione. Cionondimeno, forse vi è un caposaldo imprescindibile, ed è lo sviluppo di un certo tipo di sensibilità al possibilismo, qualcosa che assomiglia a quello che alcuni valutatori chiamano evaluative thinking.

In effetti, l’educazione rimane il processo incrementale e cionondimeno trasformatore per eccellenza. Educare la riflessione alla sorpresa, è uno dei pochi capisaldi di qualsiasi intento teso a ridefinire la spiegazione ed interpretazione dei cambiamenti, compreso la promozione di sensibilità possibiliste. Ugualmente essenziale è l’analisi di casi concreti, consci del fatto che solo così è possibile riconoscere quel curioso eppure scontato fenomeno per cui, interpellando di nuovo Hirschman, ogni realtà si sviluppa come è, grazie a quello che è, e nonostante ciò che è. Per ultimo, per capire quale sia il cammino più adeguato perché si passi dalla riflessione alla decisione possibilista è indispensabile partire da un contributo espresso in maniera diretta dalle persone immerse nelle realtà che si vogliono modificare; dargli voce all’interno di un processo a loro estraneo è largamente insufficiente, perché impone delle barriere che finiscono per filtrare e deformare le istanze di cambiamento, senza contare la perpetuazione di una condizione di subordinazione.

In conclusione, l’aversi ritagliato uno spazio da innovatore in una organizzazione ancora molto in divenire come molte delle NGO Italiane, unito ad un lavoro di valutazione ispirato alle pratiche possibiliste di Judith Tendler, a loro volta legate alla riflessione di Hirschman, ha creato una base interessante su cui riflettere per provare ad immaginare dei processi decisionali più efficaci e democratici. Passare dalla riflessione all’azione richiederà passare per un processo di prove ed errori ancora tutto da scrivere.

 

Idee da ricordare

  • Per svolgere appieno la sua funzione la valutazione deve saper entrare nell’intimo della ragione d’essere e nella costruzione valoriale delle organizzazioni
  • Approfittare delle opportunità e bypassare le difficoltà, ridefinendo di continuo il passo successivo, senza timore di seguire un percorso più zigzagante che lineare, in alcuni casi quasi inverso rispetto a quelli comunemente adottati
  • I progetti ben riusciti sono spesso il risultato di una miriade di accadimenti, molti non intenzionali o previsti, e ciò nonostante riconosciuti e sfruttati al momento giusto.
  • Occorrerebbe coinvolgere i responsabili della pianificazione dei progetti nella esperienza della natura contingente del cambiamento e dello sviluppo, e la Pratica del cambiamento può validamente contribuire a ciò.

[1] Judith Tendler e’ stata forse la allieva di Hirschman che più di altre ha applicato e divulgato il quadro analitico  sviluppato da Hirschman, spesso definito come “possibilismo”.

[2] Per una discussione dettagliata delle caratteristiche delle NGO che la Pratica del Cambiamento riconosce e pretende trasformare da punti di debolezza a punti di forza si vedano gli altri miei documenti riportati nella Bibliografia.

[3] Vale la pena ricordare un ulteriore vantaggio che offre la possibilità di utilizzare una pratica flessibile per arrivare a condurre esperienze diverse: la possibilità di realizzare uno scambio di esperienze particolarmente produttivo. Il riferimento comune assicura la possibilità di avere una comunicazione profonda, mentre il confronto con soggetti portatori di una diversa esperienza permette di identificare le caratteristiche che influenzano il processo decisionale e l’azione.

[4] Particolarmente efficace e sfidante è la osservazione  “Any idea that is not encouraging is faulty”.

[5] Oltre che sui territori, questa dinamica è osservabile anche all’interno delle organizzazioni dedite alla promozione dello sviluppo. Nella mia esperienza diretta, constato la tendenza ad una certa divaricazione tra i practitioners dediti allo studio dei concetti e procedure del momento — la localizzazione, l’accountabilty, l’approccio sistemico o quello nexus– e quelli intenti a comprendere i contesti e trovare il “passo successivo” più adeguato. I primi sono attratti da modelli e processi che promettono di portare discontinuità e trasformazioni risolutive (o radicali) e alla verifica empirica di tali ipotesi; i secondi, anche quando solo per sopravvivenza, sempre più tesi a affidarsi a cambiamenti progressivi e cumulativi orientati a migliorar il migliorabile. Con il crescere delle organizzazioni questa tendenza rischia di acuirsi, portando i primi a concentrarsi nella progettazione di interventi sempre più standardizzati ed i secondi nella esecuzione di progetti sempre più difficili da contestualizzare.


Altri documenti prodotti recentemente da Bruno Baroni

Contextualizing Projects and Evaluation through the Practice of Change  RIV Rassegna Italiana di Valutazione – Year: 2022 Issue: 78 Language: English Pages: 20 Pg. 59-78 DOI: 10.3280/RIV2020-078004 · Apr 1, 2022

La Valutazione Come Ponte tra il Field e le Policy”, presentato Al congresso Annuale della Associazione Italiana di Valutazione  – 2021.

International cooperation: The main way is flexibility”, included in VDossier, Year 10 number 2 Dicember 2019

Letture recenti

Carozza P. and C. Sedmak (2020), The Practice of Human Development and Dignity, Kellogg Institute Series on Democracy and Development

Ellerman, D. (2001),  Helping People Help Themselves: Toward a Theory of Autonomy-Compatible Help. Policy Research Working Paper;No. 2693. World Bank, Washington, DC.

Rodwin L. and D. Schön (1994),  Rethinking the Development Experience: Essays Provoked by the Work of Albert O. Hirschman.. Washington: Brookings Institution

Stame N. (2022), Tra Possibilismo e Valutazione Judith Tendler e Albert Hirschman da Rubbettino giugno 2022 – EAN 9788849871371

Stame, N. (2014), Positive thinking approaches to evaluation and program perspectives. Canadian Journal of Program Evaluation, 29(2), 67–86.