Caratteristiche peculiari del nostro possibilismo

 Caratteristiche peculiari del nostro possibilismo

Luca Meldolesi  6 maggio 2021

 Caratteristiche peculiari del nostro possibilismo.

 I

Chi siamo, cosa facciamo e soprattutto come lo facciamo. Sono domandone che non possono trovare rapida risposta perché hanno bisogno di venir snocciolate con calma e sistematicità. Questa volta concentro l’attenzione sull’ultimo aspetto: sul come e sulle sue specificità – che lo rendono così differente da quelli dei nostri  maestri e predecessori.

E’ una questione aggrovigliata che ha bisogno di un passamano – avrebbe detto Albert Hirschman. Perché anche il nostro Reformmongering riguarda ormai un quarantennio d’interesse per il Mezzogiorno (e quindi per lo sviluppo e la democrazia): un medio-periodo, che comprende una dozzina almeno di percorsi più brevi, alquanto tortuosi; cosicché se mi inoltrassi semplicemente nel loro racconto senza tenere in mano il filo rosso del ragionamento, probabilmente finirei per impantanarmi (e perder l’attenzione d’un eventuale lettrice/ore).

Conviene allora invertire l’ordine degli addendi: elencare brevemente alcune nostre caratteristiche partendo dall’oggi, per poi ritrovarne (forse) le radici in una piccola esposizione storica per sommi capi[1]. Da cui potrei affrontare in seguito un confronto ravvicinato con l’elaborazione di Albert Hirschman (che riguarda, com’è noto, l’America Latina); per giungere infine a tirare le fila (o piuttosto qualche filo…)

  • Il nostro possibilismo ha un’origine hirschmaniana, tale dunque che analisi e policy debbono procedere insieme, mano nella mano: esso si riferisce alla messa in pratica delle politiche perseguite, e quindi al risultato futuro atteso.
  • Ma, a differenza della costruzione di Journeys Toward Progress che studia come è noto tre vicende clou per analizzare il policy-making del continente latinoamericano, la nostra vicenda riguarda fin dall’inizio il dire ed il fare corrente: pretende d’imparare facendo e di fare imparando. L’apprendistato hirschmaniano che mi ha condotto Alla scoperta del possibile è contemporaneo a quello che mi ha suggerito Spendere meglio – e dunque il rivoluzionamento dell’insegnamento, il lavoro sul campo, le super-tesi, la formazione di tante/i giovani, l’avvio di un movimento di riscatto meridionale ecc. partendo da una condizione relativa di subordinazione e discriminazione[2].
  • Non si tratta dunque di un possibilismo d’alta quota che si riferisce a tecnici, politici e dirigenti amministrativi: riguarda piuttosto la scuola, gli studenti ed i territori che partono dal basso (insieme sociale e strutturale o piramidale). Pretende di mettere in moto un processo di contestazione argomentata dello stato di cose presente vis-à-vis l’equilibrio pregresso della nostra “dependencia”: nell’insegnamento, la cultura, la narrazione corrente, il sistema istituzionale locale e centrale… per procedere ad ondate successive verso l’alto.
  • Il nostro punto di svolta in proposito si è verificato quando questa attività di pensiero e di azione ha preso la corsa sul campo nei riguardi delle PMI meridionali ed ha attratto l’interesse dell’opinione pubblica tramite la stampa[3]. Decidemmo allora di muoverci come collettivo nei riguardi del governo (la Conferenza dell’occupazione di Prodi che non venne convocata, la Cabina di Regia di Carzaniga, la D.G. V ed il Ministero Tesoro-Bilancio di Ciampi). L’influenza del nostro punto di vista sul Sud corrispondeva allora ad alcune esigenze politiche di una parte valida della compagine governativa impegnata nell’operazione euro e venne quindi formalmente acquisita. Ma senza un vero impegno e senza contropartita – sospingendo così il nostro movimento verso la sua diffusione (da un lato), ma anche verso la sua dispersione (dall’altro).
  • Eppure la ragionevolezza così seminata e le energie politiche e sociali allora messe in moto consentirono, di lì a poco, la nascita di una nuova fase, quella del Comitato per l’emersione, che tramite un provvedimento legislativo, consentì di sperimentare alcune nostre idee più in alto (la Presidenza del Consiglio) e più in basso (la sollecitazione diretta ad emergere nei confronti delle PMI meridionali). Mi ritrovai quasi da solo a dover rimettere in moto la macchina con l’aiuto di un solo assistente e dei tutori. Mi riuscì solo in parte – per il boicottaggio delle Regioni meridionali (con l’eccezione della Calabria) e per le oscillazioni e poi il progressivo ostracismo dello stesso governo (che relegò il Comitato al Ministero del Lavoro e poi lo soppresse).
  • Seguì un’apertura verso nuovi interlocutori – il Nord e la tematica federalista – che consentì di metter meglio a fuoco le difficoltà del paese, ma non riuscì a superare le contrapposizioni esistenti. Nonostante gli sforzi, il bilancio è ancor oggi in profondo rosso nei confronti della Lombardia e del Veneto (con qualche eccezione: Coda, Bassetti, lo studio di Cattaneo, Il nuovo viene dal Sud, Quaranta…).
  • Da qui la necessità di una nuova svolta. Nonostante tutto, l’esperienza calabrese dei primi anni duemila era stata (e risulta retrospettivamente) importante: sia nella versione rivolta alle PMI (Chiaravalloti), sia in quella amministrativa (Loiero). Infatti sono quelli i semi che (per percorsi ancora una volta tortuosi come la conversione privatistica di Francesco C. che oltre a Field era stato voce-sindaco di Lamezia) ci hanno condotto a ciò che siamo e che stiamo facendo oggi – dal lato delle imprese e da quello della cultura e della proiezione internazionale.

In particolare:

  • Finalmente, abbiamo un punto di riferimento stabile (teorico-pratico) che non è alla mercé del sistema pubblico e dei suoi capovolgimenti di fronte (che ci hanno tanto penalizzati in passato). La funzione svolta un tempo dalla cattedra universitaria (con la sua inamovibilità) – ci siamo detti – deve esser riscoperta dal privato e dal suo autofinanziamento (individuale e collettivo). Da qui Entopan e l’Istituto.
  • Seguiamo una logica ben precisa, animata dall’innovazione nel pensiero e nell’azione, finalizzata allo sviluppo e alla democrazia (e a tante belle cose in prospettiva) – sia sul piano culturale, sia su quello economico – che si apre alla collaborazione compatibile privata e pubblica in ogni direzione, interna ed internazionale.
  • Sviluppa un dialogo eventuale, senza complessi, con ogni livello ed ogni settore (tecnico, politico, amministrativo) del pubblico su temi di comune interesse (quando esistono), volti all’avanzamento effettivo.
  • Cura in particolare i rapporti con politici e dirigenti che capiscono e si appassionano al nostro punto di vista.
  • Raccoglie le pratiche possibiliste meridionali provenienti o meno dai nostri itinerari, e cerca di approfondirne il significato, anche per evitarne la dispersione.
  • Tiene presenti i successivi décentrages che si sono verificati (con la Cabina di Regia, con il Comitato per l’emersione, con il Nord, con l’estero) e le loro conseguenze (i regni indipendenti), ma punta ad acquisire forze ulteriori tramite récentrages successivi coinvolgendo persone del pubblico e del privato già conosciute e/o di nuovo conio.
  • In proposito, è bene non farsi illusioni perché chi ha lavorato con noi mantiene certo una qualche rapporto con il nostro modo di pensare, ma ha poi perso contatto, spesso per una difficoltà di elevarsi a sufficienza. Impegnato in seguito su altri terreni di lavoro e famiglia troverà arduo riagganciarsi (ammesso che lo desideri)[4]. Così è più facile che i récentrages avvengano in Entopan con persone nuove (tipo calabresi che desiderano tornare in patria) che in AC-HII con nostri ex-allievi…
  • Ma il problema esiste e non dobbiamo perder di vista i potenziali protagonisti culturali (passati e futuri). Perché la metafora più valida è pur sempre quella del sasso nello stagno. Più è grande il sasso, più cerchi concentrici si creano: è vero. Ma questi ultimi non aumentano il peso del sasso. Piuttosto, se si crea un maggior consenso sulle iniziative dell’Istituto, è possibile che nuovi soggetti se ne interessino.
  • Sa bene il nostro AC-HII, sulla base dell’esperienza trascorsa, che tali processi di rafforzamento vengono innestati dai successi ottenuti e dal desiderio di parteciparvi: è la componente onirico-desiderante degli umani per bene.
  • Entopan e l’Istituto si muovono così sullo scacchiere meridionale, nazionale, europeo, intercontinentale senza limiti precostituiti perseguendo obiettivi analoghi, collegati tra loro.

Sì, d’accordo – potrà interloquire a questo punto il lettore un po’ infastidito dal mio menare il can per l’aia. Ma cosa pensiamo di ottenere?

Innanzitutto, risponderei, l’utile ed il dilettevole  – incluso il sentirsi dalla parte giusta (“for a better world”), la soddisfazione del lavoro, la scoperta di nuovi camminamenti, lo spender bene la propria giornata. E poi l’apprendimento di (e la partecipazione a) ciò che può esser fatto effettivamente, utilizzando le opportunità e le costellazioni di circostanze che via via si presentano a tiro.

Perché non è scritto da nessuna parte che il Mezzogiorno e l’Italia (come i tanti Sud ed i tanti paesi del mondo) debbano marcare il passo o addirittura retrocedere. Anzi, potrebbero persino bruciare le tappe. Esistono in particolare forze tecnologiche, economiche, sociali, politiche che già si muovono in quella direzione e che per processi iterativi e spesso labirintici potrebbero far la differenza. Varrebbe la pena di sostenerle… A patto, tuttavia, di apprendere davvero l’arte della pazienza che coinvolge inevitabilmente più generazioni. Ad esempio: bisogna fare in modo che l’uso sistematico delle nuove tecnologie, l’orgoglio privato e pubblico, la sponda europea (e mediterranea) in via d’ulteriore integrazione, la battaglia per il miglioramento ecc. ci aiutino per gradi a padroneggiare effettivamente ed a curare le nostre ben note fragilità (e faiblesses)…

                                                                       II

Vorrei capire perché mi sento meglio oggi di ieri (vale a dire: in questa fase del nostro possibilismo rispetto a quella precedente). Naturalmente l’età e l’esperienza hanno un peso in proposito. Ma non bisogna banalizzare. Piuttosto, dobbiamo comprendere come il possibilismo di oggi, che è figlio del processo accennato più sopra, è riuscito ad ovviare ad alcuni limiti delle esperienze precedenti.

Ad un certo punto, nei primi anni dieci di questo secolo, mi sono sentito alla fine della strada. Senza più Albert dietro le spalle, impegnato a  dialogare con intellettuali del Nord che non capivano l’antifona (o prendevano fischi per fiaschi pro domo loro). E soprattutto attorniato da ex-allievi che, in tutt’altre faccende affaccendati, avevano il problema di “tenermi buono”. Non potevano (e forse non volevano) “astutar ‘a bucia”, ma neppure alimentarla. Così le cose si trascinavano senza un vero scopo condiviso, facendomi sentire prigioniero di un meccanismo messo in campo da tempo che non riuscivo a correggere.

Spesso i fatti sono più significativi delle parole. L’avvio dell’Istituto ha rappresentato un evento importante. Naturalmente, tra gli improbabili ha prevalso l’atteggiamento del “tutto cambi perché nulla cambi”. La famosa terza gamba dell’Istituto che, di per sé rappresentava già una soluzione minimale (e talvolta curiosa, come quella del Paoletto tesoriere che pretendeva lo sconto), non ha retto l’immane sforzo: l’ipocrisia, l’antropomorfismo e l’impotenza largamente prevalenti sono venute al pettine.

Contemporaneamente, però, quei quattro gatti che siamo, abbiamo avuto la forza di tre conferenze internazionali e di non so quanti volumi e pamphlet (in italiano e in inglese) firmati dalla nostra premiata ditta con quattro editori (uno calabrese, uno romano e due americani).

Vorrei essere più preciso. I quattro gatti hanno ora a disposizione tre appartamenti all’estero e cinque staffisti: Roberto (che è anche dell’Istituto) per federalismo democratico et alia, Federica all’amministrazione, Ornella – spalleggiata da Francesco Fulvio (grafica) e Raffaele – per Venti del Sud e sito in inglese, Sara Villoresi a NY e Bruno Marracino per la composizione. Conseguenza: boom editoriale e budgettario.

Così  Pratiche possibiliste sarà davvero utile se non dispenserà nostalgie per il lungo indugio ipocrita (e conveniente: per loro!) che abbiamo ormai alle spalle – quando Luca tirava la carretta da solo (e senza un soldo)… Al contrario: quel libro diventerà molto utile se ci servirà per aprirci a nuovi ambienti (di ogni genere), farci capire da persone interessanti ed interessate (vicine e lontane). Se, mostrando lo jato tra il dire ed il fare (diciamo così) a lungo perpetrato, volterà di fatto le spalle ad un’intera fase. Anche perché, mollati gli ormeggi, potremo puntare ancora più in alto. Non è così?

Ma allora è un’ossessione! – penserà il lettore.

La risposta è positiva. Perché è l’unico modo che abbiamo trovato per combattere la possente tendenza “abbassatrice” (ed accomodatrice) propria della dipendenza. Basta un attimo e uno si ritrova nel dirupo a dover risalire la china.

Non è colpa nostra se tanti arrivati ad un certo punto si sono arenati – o addirittura hanno buttato la spugna.

Patti chiari e amicizia lunga: chi fa parte dell’Istituto ha il dovere di elevarsi giorno per giorno. Per gli improbabili (e gli altri in genere) continuo a spedire i nostri materiali (se mi danno il loro indirizzo postale). Inoltre bisogna fare accordi specifici per iniziative circoscritte di comune interesse (come con Enzo De Bernardo, se lo desidera, per il terzo webinar italo-tedesco). La nostra porta è spalancata soltanto per chi condivide davvero il progetto e fa il possibile per elevarsi.

Dobbiamo chiarire bene: oggi siamo diversi da come siamo stati in passato.

In sintesi, ho imparato che:

  • non bisogna MAI farsi “placcare” verso il basso (tentazione ubiquita di chi è impegnato nello sviluppo locale).
  • Infatti, “puntare in alto” es la consigna, liberandosi di qualsiasi resistenza o intralcio (anche di quelli impliciti, che non si vedono a prima vista: ad es. perché è così difficile convincere una/un pugliese, siciliana/o o campana/o ad andare in Calabria?)
  • Se l’operazione riesce davvero, può produrre un vasto effetto benefico; ed anche rianimare il giro. Ma bisogna evitare che tale fenomeno riattivi anche la tentazione del placcaggio…
  • Il successo produce un effetto richiamo che va vagliato con attenzione – sia verso persone conosciute che sconosciute.
  • Praticare il nostro possibilismo è un privilegio: diffidare delle imitazioni (e dello sfizio napoletano). Ciascuno deve avere unicamente ciò che si merita.
  • Elevazione, padroneggiamento, identificazione, assedio e presa in consegna di obiettivi successivi, anche modesti, rimane la linea direttrice. Ma il nostro scopo, come sapete, non è di spodestare i potenti, vogliamo semplicemente sospingere loro e tutti quanti verso nuovi, ragionevoli orizzonti colorniani…
  • Creazione progressiva di un sistema di alleanze e di partnerships con iniziative compatibili in Italia e all’estero è parte essenziale del nostro lavoro. La vicenda Istituto-Entopan mostra che è perfettamente possibile agire in parallelo su piani diversi con soddisfazione reciproca. Quella Istituto-Berlino potrebbe andare nella stessa direzione… E, ad esse, potrebbero (dovrebbero) seguirne altre ancora. Infatti, covid permettendo, dovremmo poter riprendere ben presto il nostro lavoro: urbi et orbi!

Luca Meldolesi,  6 maggio 2021

[1] Si tratta, è chiaro, di una schematizzazione soggettiva. E dal momento che molti protagonisti vi hanno partecipato essa potrebbe (e forse dovrebbe) venir corretta e completata da altri angoli di visuali. Anzi, non nascondo che una delle ragioni principali delle note che seguono risiede proprio nella speranza di riuscire a far riflettere (e mettere in movimento) qualcuno almeno dei soggetti che potrebbero proseguire il discorso (se lo desiderassero, naturalmente…)

[2] Ricordo, ad esempio, che parlando di un grade storico polacco, Braudel diceva che gli era mancato il megafono (di Parigi, s’intende).

[3] Ma vi fu un antefatto: la crisi morale e mafiosa del 1992-93 che mi aveva condotto temporaneamente al Ministero della Difesa (e che avevo giuocato sul tema della valutazione e di una riforma della FF.AA. e delle attività produttive collegate che troverà sbocco in seguito con il Ministro Andreatta) mi aveva solo aperto gli occhi sulle difficoltà del compito.

[4] Qui si capisce, a mio avviso, il significato del necessario padroneggiamento dell’iniziativa possibilista, per quanto circoscritta. Perché non può trattarsi di un fatto episodico, magari estemporaneo di dialogo con la realtà; ma deve far parte di un processo che inanella esperienze, oscillazioni, cadute, riprese ed avanzamenti successivi; di uno svolgimento personale e/o collettivo che richiede continuità  e sforzi notevoli per elevarsi (per via di riflessione e di relativa astrazione, di teorizzazione e di cauta generalizzazione) su un mare di opportunità e di grattacapi. Il dialogo con la realtà che ci circonda può lasciarci indifferenti (e/o sottomessi) ma può anche provocare una nostra reazione. Quest’ultima, a sua volta può condurci a padroneggiare (o meno) le situazioni ed i processi che si vanno via via creando. E’ a questo punto che si perde o sia acquista la capacità di costruire nel tempo un proprio possibilismo. Vale a dire, di elevarsi sui fatti per poter intravedere proposte e vie d’uscita adeguate. Ciò richiede un impegno diuturno che bisogna sempre rinnovare. Avrebbe potuto Eugenio venire a capo dei suoi studi filosofici o Albert di quelli economici se l’uno e l’altro non si fossero messi in testa di padroneggiarli? Come è potuta nascere la relazione uscita-voce che li collega a partire dai due “ritrovamenti” opposti contenuti in  The Strategy e di Development Projects? E’ ciò che ho cercato di spiegare per il 50nario di Exit. Forse qualcuno dovrebbe leggerlo quel mio pezzo, in Long is the Journey… n. 5, nel nostro sito. In conclusione, è questa (e non altra!) la logica dell’asticella e del salto sempre più in alto di cui tanto abbiamo parlato. Chi si ferma è perduto… dice il proverbio.