Venti del Sud n. 11 – Dicembre 2021

Venti del Sud n. 11 – Dicembre 2021

Coltivare un’impresa internazionale con solide radici nel Sud

Scopriamo come il successo di un’impresa possa nascere  sulla base di una forte attenzione etica e stimolando la coesione tra imprenditori e stakeholder locali

di Paola Cascinelli *, basato sulla testimonianza portata dal dott. Giuseppe Di Martino alla Scuola “Eppur si può” organizzata da A Colorni-Hirschman International Institute il 28.5.2021

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Idee chiave

  • Utilizzare l’esperienza internazionale per mettere a fuoco valore e valori di un’impresa
  • Riconoscere nei “concorrenti” locali i migliori alleati per la crescita, costruendo alleanza per competere su una scala più elevata
  • Mettere il rispetto della persona ed il giusto compenso a fondamento dell’agire non risponde solo a un principio etico ma rende migliore e più efficiente l’impresa

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Pastificio Di Martino

Ha sede a Gragnano, città nota in tutto il mondo come “capitale europea della pasta”, e crea un prodotto di eccellenza utilizzando grano esclusivamente italiano, mescolando acque sorgive locali e con un procedimento rigorosamente rispettoso dell’ultracentenaria tradizione pastaia e del disciplinare della Pasta di Gragnano IGP, di cui lo stesso Di Martino è promotore. Il Pastificio Di Martino è partner di Slow Food Italia e della James Beard House di New York. Di Martino è un autorevole punto di riferimento internazionale. Il costante impegno e le continue innovazioni di tre generazioni di pastai hanno portato il Pastificio Di Martino ad esportare la pasta di Gragnano IGP in 36 paesi, promuovendo con entusiasmo il prodotto di famiglia nel mondo. Il gruppo Di Martino è proprietario di 4 brand di pasta secca: Pastificio Di Martino, Pastificio dei Campi, Pastificio Antonio Amato e Cook Italia. Nel 2017 ha acquisito la maggioranza di Grandi Pastai Italiani.

Dal mio osservatorio beneventano, al confine con l’Irpinia, il tema dell’agricoltura e della valorizzazione delle biodiversità ritorna spesso. Ci si imbatte, infatti, in contadini in avanti con gli anni che provano a coltivare la terra su cui una volta cresceva rigoglioso il tabacco. Le braccia forti sono ormai scarse, i giovani che non si accontentano del reddito di cittadinanza vanno via inseguendo ambizioni più moderne. Così come si vedono spesso campi coltivati con frutta e verdura lasciata a marcire, forse finanziati con fondi pubblici per la promozione dell’agricoltura e non monitorati fino alla fine del processo. E bellissimi grappoli di aglianico, uva tipica di queste zone, vengono lasciate a uccelli e cinghiali. Un’amica che fa la contadina “per passione” vende i suoi prodotti “bio”, ma non certificati, al mercato locale e il suo olio costo 7 euro al litro. Non sa che in altre zone d’Italia lo stesso olio viene venduto a 10/12 euro al litro, almeno. E ancora, gli incendi. Ettari di terreni abbandonati, con sterpaglia lunga e secca che a 40 gradi e un bel vento di scirocco prende fuoco che è un piacere. Ci sono melograni belli, rossi e gonfi un po’ ovunque in questi giorni, eppure li puoi trovare nei supermercati provenienti dal Perù, con tutti i segni del lungo viaggio.

Il seminario organizzato in giugno da A Colorni-Hirschman International Institute e dedicato a una eccellenza dell’industria alimentare è quindi caduto a fagiolo (non potevo risparmiarmi il parallelo agricolo) tra le mie riflessioni. Giuseppe Di Martino rappresenta infatti non solo un caso di gestione aziendale all’avanguardia, ma è anche di ispirazione a chi riflette su come l’identità (e le identità) italiane possano essere promosse. 

Il pastificio Di Martino è un’azienda familiare alla terza generazione che ha saputo reinventarsi in chiave internazionale, trasformando il limite (percepito) della perifericità meridionale in vantaggio comparato, usando l’estero per capire, riflessi negli occhi di chi ci osserva, chi siamo e dove possiamo puntare, e scoprendo che rimanere ben attaccati alle radici territoriali e alla propria comunità può rappresentare il modo migliore per competere con i grandi giganti del capitalismo internazionale.

La storia aziendale

Quando Giuseppe torna nel 1997 dalle sue esperienze all’estero, trova un’azienda in condizioni abbastanza critiche: sottocapitalizzata, tradizionale, con problematiche di passaggio generazionale e con sistemi di comunicazione e di vendita ormai sclerotizzati. 

Giuseppe aveva lavorato due anni in Inghilterra, prima per una trading company specializzata in commodity come semi di lino e olio di colza, poi per un’azienda più simile al pastificio di famiglia, che vendeva prodotti di importazione alle catene di supermercati. Con frequenti viaggi in Cina e nel Far East, Giuseppe si occupa di comprare prodotti come ananas, mais, cavoletti o cetriolini. Quando gli arriva una proposta allettante dalla Buitoni, che l’avrebbe assunto nel commerciale con uno stipendio di tutto rispetto, Giuseppe capisce che vuole tornare a casa. Decide quindi di dedicarsi all’azienda di famiglia, nonostante lo stipendio minimo e la bassa posizione gerarchica dalla quale il padre, titolare del pastificio, lo farà partire. 

Come detto, il Pastificio di Martino è un’azienda familiare da tre generazioni. Il nonno di Giuseppe vi lavorava come operaio all’inizio del secolo scorso. L’allora titolare aveva tre figlie che studiavano medicina e letteratura e non riteneva il pastificio un posto facile da governare per delle giovani donne. I dipendenti erano molti, stagionali, pagati poco e dall’estrazione sociale semplice. Erano spesso coperti solo con un sacco di iuta, dovendo entrare e uscire dalle celle di essiccazione. Preoccupato da questa condizione, il titolare propose al nonno di Giuseppe, all’epoca diciottenne, di acquistare l’azienda. Per facilitare l’operazione, si fece garante di un prestito presso il Banco di Napoli, rimanendo in azienda per altri vent’anni e lavorando occasionalmente, come presidente non esecutivo, in attesa che il debito fosse estinto. Il nome, da allora, divenne Pastificio Giuseppe Di Martino. Cambiò solo durante il Fascismo quando il gerarca locale impose di cambiare il nome in Impero, per celebrare la gloria fascista e la conquista dell’Abissinia, cogliendo il valore evocativo della pasta a livello nazionale ed internazionale. Da sottolineare come il Pastificio Di Martino avesse nella sua etichetta la rappresentazione di una donna nei campi, dalla carnagione colorita e con i capelli neri. Quando diventò pastificio Impero divenne più chiara e pallida. Appena cadde il fascismo il pastifico ritornò al suo nome originario.

Quando Giuseppe prende in mano l’azienda, è un altro periodo storico complesso che segue gli anni della ricostruzione post terremoto. Molte aziende del territorio, come la sua, si erano sovraesposte finanziariamente seguendo l’intervento straordinario. I fondi pubblici promessi non erano però arrivati nei tempi e modi stabiliti, lasciando molte imprese in seria difficoltà nel pagare da soli gli investimenti fatti. “C’era bisogno di una rivoluzione” afferma Di Martino. Il Pastificio era particolarmente indebitato, con un fatturato di 12 milioni di lire e un debito di 15 milioni. Per fortuna il conto economico dell’azienda non era male e la capacità industriale di produrre valore era evidente.  

Oggi l’impresa è cresciuta molto. Ci sono sette stabilimenti produttivi, un ufficio ad Amburgo, a New York e a Londra. Giuseppe è rimasto un “one man show” per molto tempo. L’intervento di una società di consulenza ha convinto (anche il padre) che bisognava aumentare i capitali e investire su nuove competenze e professionalità. Di Martino ha finalmente un assistente e l’azienda ha sei dirigenti, italiani e stranieri, che vengono da esperienze in multinazionali, come Unilever, o da aziende simili come Lavazza o Rana.

Lo stimolo dall’estero, la dimensione immateriale e la disintermediazione

L’esperienza internazionale di Di Martino ha contribuito a identificare nel mercato estero un’importante occasione di sviluppo. Nei suoi due anni in Inghilterra, Giuseppe ha imparato molto e conosce bene quel mercato. Un mercato che definisce fluido, liquido, meritocratico, con al centro il cliente e con personale, anche manageriale, che cambia ogni 18 mesi. In Italia, invece, secondo Di Martino, ci sono condizioni competitive molto sclerotizzate. La grande distribuzione italiana è fatta da cooperative, strutture che non guardano al profitto ma a mantenere stabili le condizioni di produzione, salvaguardando dipendenti ed equilibri politici. 

Osservando l’estero Giuseppe si rende anche conto che la pasta è uno dei prodotti dell’agroalimentare italiano più maturo e bistrattato. Grandi aziende produttrici del Nord Europa, infatti, trattano la pasta come una qualsiasi commodity da negoziare in giro per il mondo al prezzo più basso. Sotto la spinta dei discount tedeschi, vengono prodotti 2 o 3 formati, per avere rendimenti di scala crescenti, i contratti di fornitura diventano sempre più “transazionali”, tutto viene fatto in breve tempo, con forniture a tre mesi, e le strutture organizzative spingono a non pensare al futuro e solo a massimizzare il profitto.

Il mondo si stava polarizzando tra coloro che facevano “le bestie da soma” per i discount e chi invece stava cercando di ancorare il prodotto ad una serie di cose che lo rendevano “uncommodity”. Giuseppe capisce che per uscire da quel confino bisognava aggiungere valore e che l’unico valore che puoi aggiungere in un mondo molto maturo è immateriale. Quello che Di Martino chiama il value engineering aziendale: puntare su fattori immateriali che aumentano la percezione dell’importanza del prodotto, come i valori tradizionali del territorio, della terra, della qualità, della sostenibilità ambientale ed etica, la tracciabilità di filiera, il benessere e la sicurezza alimentare. Ma anche il rispetto e la trasparenza dei rapporti di lavoro e dei contratti con clienti e fornitori. “Bisogna diventare un’azienda di vetro – afferma Di Martino – non preoccupandosi che i segreti aziendali siano visibili all’esterno. Non è preoccupante che un’idea venga copiata, è la fabbrica delle idee che è nella testa dei dirigenti aziendali, non imitabile, che deve rimanere attiva e innovativa ogni giorno: il segreto dei segreti è avere segreti tutti i giorni” 

A questo sforzo di comunicazione dei valori, andava accompagnato lo svincolamento dagli intermediari. La grande distribuzione tradizionale nata negli anni 50/60, come Walmart o Esselunga, è infatti messa in discussione sia dall’alto che dal basso. Dal basso, i discount sono sempre più aggressivi, promettendo ai consumatori una “democratizzazione del cibo” grazie alla riduzione del prezzo. Un’illusione, secondo Giuseppe: un prezzo più basso si traduce in cibo di più bassa qualità, banalizzato e massificato, che toglie valore a ciò che arriva sulla tavola. Dall’alto la GDO è invece attaccata dalla vendita online, sempre più frequente anche per i prodotti agroalimentari. Le abitudini di consumo sono cambiate. Prima andare al supermarket era uno status symbol. Tornare a casa con le borse piene di provviste significava avere grandi disponibilità economiche. Oggi, invece, è alla moda saper scegliere. Essere nel “soft spot” del consumatore, essere percepito come prodotto di qualità e di ambizione. La pandemia ha accelerato il processo e queste strutture pachidermiche fanno fatica a adattarsi.

Ma Di Martino, osservando l’estero, si rende conto anche della forza evocativa della pasta, come dimostra il racconto sul fascismo. La sua universalità è riconosciuta a livello globale per la semplicità degli ingredienti e per la versatilità di utilizzo. I pastifici della penisola da tempo orientano le decisioni di acquisto dei consumatori di tutto il mondo. Ogni anno l’associazione dei pastai italiani conduce una ricerca di mercato per capire le abitudini dei consumatori internazionali. Dai risultati si evince che chi compra pasta prende il pacchetto, lo gira, e sceglie di comprare gli ingredienti elencati nella ricetta sul retro. Ad esempio, la carbonara farà comprare uova, pancetta e pelati. La pasta trascina il resto, è un “prodotto tapis roulant”, su cui si può mettere qualsiasi ingrediente. Non esiste un marchio di un altro prodotto agroalimentare italiano, come olio o pomodori, che venda anche pasta, dice Giuseppe. Al contrario, grandi produttori di pasta come Barilla e Divella, ma anche il Pastificio Di Martino, vendono prodotti collegati come sughi pronti.

Gragnano, città dell’anima, e il Consorzio di tutela della Pasta

E in linea con questo approccio, Giuseppe si rese conto di essere in un posto eccezionale, la sua Gragnano. 

Il Sud, nel racconto di Giuseppe, incarna molto bene i valori dell’etica, della sostenibilità ambientale, della tradizione, dell’autenticità e della certezza della provenienza: l’impresa alimentare italiana è principalmente familiare e quindi intrinsecamente sostenibile. Non ha progetti a 3 mesi, ma a 3 generazioni. Se si soffre un anno di magra si possono fare scelte che possono andare oltre il bilancio trimestrale. Ma a Gragnano c’è qualcosa in più: un “luogo dell’anima”, non solo geografico, secondo Di Martino. Qui, infatti, a partire dal XVI secolo, la produzione dell’“oro bianco” non si è mai interrotta. La resilienza di un’attività sul territorio, a prescindere dalle condizioni finanziarie o economiche, sociali e politiche, testimonia una forza peculiare a quel luogo che i francesi sintetizzano nel termine terroir. Non è importante il posto geografico di per sé, ma anche gli esseri umani, la loro storia e la stratificazione di queste dimensioni in un “mille foglie di condizioni fisiche, storia e imprenditori che conoscono il prodotto in maniera irripetibile”. 

Come sottolineato sia di Giuseppe Di Martino che da Paolo Di Nola, altro Gragnanese doc presente all’incontro, il terroir della cittadina vede la presenza storica di un ricco tessuto imprenditoriale. Gragnano, poco meno di 30mila abitanti, fa parte della continua urbanizzazione tra Napoli e Castellammare di Stabia, ma c’è una profonda differenza in termini di tessuto sociale. Escludendo il periodo della ricostruzione post sisma degli anni ’80, Gragnano non ha mai visto una presenza imprenditoriale diversa da quella privata. In città sono gemmati “fior di imprenditori”, come Di Martino, nei settori più disparati, dalla moda, al Panuozzo, spia di una cultura volta all’imprenditorialità. Ciò nonostante, la camorra ha aggredito anche questi territori. Ci sono stati imprenditori minacciati e colpiti a morte dalla malavita. Lo stesso padre di Giuseppe è stato testimone in processi di mafia per denunciare chi raccoglieva soldi per la protezione, il pizzo.

Come è scritto ovunque nel pastificio Di Martino, “Ogni dove ha un perché”. Dal punto di vista ambientale, l’aria e l’acqua di Gragnano, infatti fanno la loro parte. L’acqua è ideale per impastare e ha un livello ottimo di minerali. Ma molto era la conoscenza, il saper fare, che non doveva andare disperso.

“Il saper fare dei territori è molto più potente e resiliente del saper fare a prescindere”. L’essere tutte aziende piccole, italiane e provenienti dalla stessa città, contribuisce ad innalzare il valore immateriale della pasta. Di Martino capisce che doveva essere l’intera città a raccontare una storia. 

Si oppone invece alle classiche forze ostative del sud Italia: l’individualismo, l’azienda singola, il vantaggio di breve durata, l’aiuto del politico, la sovvenzione, la fornitura di piccola dimensione tramite l’appalto. Anche la posizione periferica della città viene usata a proprio vantaggio utilizzando la risorsa più vicina, il Porto di Napoli e Salerno, infrastrutture moderne e maggiormente sostenibili del trasporto su gomma. In questo modo si è riusciti a costruire un vantaggio comparato su altri concorrenti che non avevano facile accesso al mare e diventare forti nei paesi raggiungibili con il trasporto su nave, come Stati Uniti, Nord Europa, Far East, Sud Africa, Australia e Sud America. Di Martino usa dire che “Gragnano è in provincia di Tokio, mentre Milano è in un altro continente… Un trasporto a Milano costa 2800€, un trasporto a Tokio costa 800$. Quindi ti devi dimenticare Bologna e Milano finché non sei diventato forte abbastanza per chiudere anche quel gap logistico. E utilizzi il problema come opportunità”. Si è reso conto che il concorrente è il concorrente tedesco, greco, turco, non quello del suo paese e si impegnato a diffondere questa consapevolezza su tutto il territorio, creando un’ambiente cooperativo tra i produttori di pasta locali. Nel 2003 spinge quindi per la creazione del Consorzio della Pasta di Gragnano, di cui resterà presidente per 14 anni, e comincia un duro lavoro di intessitura di rapporti di fiducia tra produttori e istituzioni locali, nazionali e comunitarie, con interessi spesso in contrasto tra loro. C’era infatti un grande produttore, Garofalo, due imprese medie, come la Di Martino e la Liguori, e qualche piccolo produttore artigianale: Garofalo aveva paura che gli altri crescessero insediando la usa posizione competitiva; le piccole aziende non capivano cosa condividessero con un gigante come Garofolo e perché dovessero collaborare nelle azioni promozionali visto che questa rappresentava il 50% della produzione. 

Per convincere le atre imprese a fare un lavoro condiviso devi essere e apparire una persona che fa del lavoro per loro, devi fare un lavoro di sottrazione e dimenticare di essere Di Martino. Devi essere solo di Gragnano, anche quando diventi brand ambassador. Bisogna fare tutto ciò che si può per sottrare individualità e valorizzare la comunità, anche nell’apparenza… Altro segreto è sembrare meno bravo di quello che sei, l’understatement, così che non ti ostacolino troppo. Devi essere onesto intellettualmente, devi farlo credendoci. L’individualismo va combattuto con il tuo esempio, man mano si creano circoli virtuosi, da piccoli passi si creano risultati che incoraggiano gli altri e pesano molto di più della parola.

Il Marchio di qualità e l’Europa

Nonostante le difficoltà, nel 2013 Di Martino riesce a far convergere le tante forze in gioco e a conservare tutte le anime di Gragnano in un disciplinare che ottiene un importante marchio di qualità europeo, la certificazione IGP, Indicazione Geografica Protetta. Alla base del disciplinare c’è il processo produttivo classico: trafilatura a bronzo, acqua di Gragnano, una esperienza di cinque secoli e un livello qualitativo superiore. La pasta di Gragnano contiene un minimo di 13% di proteine, mentre quella Italiana ne ha il 10.5%. Più alto è quindi il prezzo della materia prima e bisognava comunicarlo anche all’esterno. 

Per raggiungere questo scopo, Giuseppe ha inviato esponenti delle amministrazioni europee e visitare la città e a provare i 40 tipi di pasta difficilmente riproducibili dalla grande industria, a visitare la Valle dei mulini, il Borgo di Castello, a scoprire una città che, sebbene distrutta dall’abusivismo edilizio, dimostrava la lunga storia imprenditoriale, a capire la differenza tra la trafilatura a bronzo e quella a ferro: “Abbiamo dovuto spiegare che il colore diverso della pasta, dovuto alla trafilazione a bronzo, ne aumentava la qualità. Non era andata a male come molti credevano.”

Soltanto tramite la capacità di comune voce e di racconto si poteva arrivare ad avere una dimensione tale da potersi confrontare con clienti che erano (e sono) dimensionalmente più grandi e potersi sedere ai tavoli con potere negoziale. Aziende enormi e ben organizzate come Tesco o Walmart hanno la capacità di spingere alla chiusura piccole imprese non specializzate che non riescono a competere sui prezzi. 

La squadra costruita da Di Martino aveva tutte le carte per apparire diversa e ha trovato nell’Europa, tramite le certificazioni di qualità, un’ottima sponda per la sua tutela. In questa visione, i marchi di qualità europei sono infatti una maniera per poter difendere le produzioni di qualità locali, soprattutto francesi e italiane, paesi traino di queste certificazioni, contro le multinazionali nordeuropee e statunitensi. Si rese conto che potevano essere uno scudo ma anche un potente trampolino di lancio per delle piccole imprese meridionali. Non era solo Giuseppe di Martino a raccontare una storia, ma era un’intera comunità a rappresentarsi alle fiere, in Europa e presso le Istituzioni locali. Di Martino ha riunito concorrenti e aziende partner dicendo loro che, grazie ai marchi di tutela, pur non investendo miliardi, si potevano avere dei grandi vantaggi. “Se non puoi investire milioni di euro come Barilla, ti affidi alla comunità” dice “parlate voi e se parlate voi parlerete anche di me”. Grazie a questi strumenti si poteva competere con la grande capacità comunicativa di una multinazionale e garantire al consumatore che, indipendentemente dalla marca dell’azienda, il prodotto avrebbe avuto certe caratteristiche essendo prodotto in un modo specifico. “L’indicazione geografica protetta è questo posto fantastico dove ho posizionato la mia azienda e tutte le aziende del mio territorio perché tutela più che la materia prima, l’uomo, il processo, la capacità di fare di quel particolare posto nel mondo”. 

Le amministrazioni comunali, provinciali e regionali hanno accompagnato il progetto fin dall’inizio, comprendendo che non era quello di un singolo imprenditore, ma di una intera comunità che andava aldilà della stessa azienda. Se domani chiude il Pastificio Di Martino, sostiene Giuseppe, il marchio IGP Gragnano resta. Inoltre, è stata l’occasione per le amministrazioni di affermarsi nella città. I cittadini di Gragnano hanno visto una grande opportunità di rivalsa: “Io abito a Gragnano che è la città della pasta”. L’intera città riscopriva una identità comune.

Nonostante l’importanza della dimensione locale, quando la città ha ottenuto l’IGP, Giuseppe ha voluto celebrare la vittoria a Bruxelles, facendo cucinare una chef casertana al Parlamento. In questo modo ha voluto sottolineare e riconoscere l’importanza e il ruolo dell’Europa come fondamentale possibilità di crescita per l’Italia e per il Mezzogiorno. 

L’importanza della biodiversità

Ma le istituzioni non sono sempre state d’accordo con questo progetto visionario. Il grano italiano conta 296 varietà che sono adeguate alle diversità territoriale della penisola. Negli anni ‘90 l’orientamento anche governativo era quello di ridurre e semplificare per poter competere con i giganti del grano. Il Canada, ad esempio, conta solo 4 varietà, ha aziende che coltivano milioni di ettari e una enorme capacità di investimento nella ricerca e nel miglioramento dei processi. Di Martino ha invece sempre lottato per mettere al centro del progetto il contadino. Per loro, la terra cambia palmo a palmo e ogni varietà darà “il meglio di sé” sul terreno di cui è originaria e dove la si coltiva da sempre. Se il contadino è protagonista, sostiene Giuseppe, farà le scelte corrette in relazione a ciò che è meglio su quello specifico territorio. In questo modo, non solo la qualità del prodotto ne beneficerà, ma includere più varietà consente di ridurre le allergie e le intolleranze che uno specifico tipo di grano può causare. Inoltre, un bravo pastaio sa anche capire quali varietà sono migliori per i vari tipi di pasta. “Sappiamo quale qualità è meglio per le linguine, e quale per i paccheri. Questa è Gragnano” dice Giuseppe.

Spesso invece, lamenta Di Martino, si seguono le mode. Oggi è di moda il Senatori Cappelli, una varietà particolarmente alta introdotta a fine ‘800 nelle coltivazioni a nord delle Marche. Il fatto che svettasse sulla nebbia tipica di questi luoghi consentiva al grano di non ammuffire. Quando durante il Fascismo si inaugurò il progetto di coltivare il grano su tutto il territorio nazionale, anche in zone non naturalmente vocate a tale produzione, si decise di adottare questa qualità. Si misero così a rischio tutte le altre diffuse nel Sud Italia, varietà uniche come quelle delle Puglie, della Murgia e del subappennino Dauno. Queste si sono conservate solo perché venivano prodotte come mangime e vendute a un costo bassissimo. Inoltre, l’agricoltura italiana è molto parcellizzata, con appezzamenti di 5, 10 o al massimo 12 ettari, che non hanno favorito investimenti per migliorarne la produzione. L’indifferenza delle Istituzioni, che considera l’agricoltura un “mondo vecchio”, aggrava la sensazione di abbandono in cui si trovano gli agricoltori.

Grazie al circolo virtuoso inaugurato da Di Martino e i suoi colleghi, oggi si comincia a capire che se il contadino viene pagato a dovere, questi reagirà recuperando la sua dignità e il suo sapere e produrrà un ottimo grano. Quest’anno, per il primo anno da quando Giuseppe è in questa attività, il grano italiano costa più di quello canadese. È diventato di moda, così come la tracciabilità, e oggi tutti i marchi italiani hanno grano italiano. In questo modo si sono potuti fare degli investimenti che hanno rivalutato le tante varietà esistenti e ne hanno aumentato la qualità. “Le 296 qualità di grano diventano una tavolozza con le quali si può fare un bellissimo prodotto italiano e un pastaio come me può divertirsi. Con solo tre varietà che cosa posso fare?” conclude Giuseppe.

Come innovare un prodotto tradizionale

Una volta riportato alla luce l’unicità della pasta di Gragnano e delle varietà di grano italiano agli occhi dei produttori, dei cittadini e delle Istituzioni, bisognava convincere i mercati nazionali ed internazionali. La pasta, infatti, è un prodotto tradizionale e bisognava aggiungere una componente innovativa che mantenesse accesa l’attenzione.

La prima azione del Consorzio in questa direzione è stata coinvolgere degli chef che potessero rielaborare le ricette tradizionali e “far diventare poesia acqua e semola”. Il Vesuvio di rigatoni, ideato da Alfonso Iaccarino, fu una svolta in questa direzione. Il piatto di pasta con il pomodoro (la Devozione a Napoli, da non rifiutare), da sempre simbolo dello sfamarsi e dall’aspetto informe, diventa un piatto gourmet che dà nuova dignità all’italianità. I rigatoni vengono sistemati in modo verticale con una la salsa di pomodoro che cala come una lava, “diventando prodotto dell’anima, come Gragnano”. In questo modo si valica il concetto di commodity e la pasta diventa oggetto spirituale ed emozionale. 

Un marchio high-end

Altra iniziativa è stato creare un prodotto di altissima gamma con un diverso marchio, il Pastificio dei Campi. Venduto al pubblico a 12/13 euro al kg, il doppio del più caro dei concorrenti di Di Martino, il prezzo copre perfettamente il costo della materia prima eccezionale che viene usata. Il grano, infatti, viene seminato e raccolto ogni tre anni, in modo che la terra recuperi sostanze nutritive, e con una densità di un terzo inferiore rispetto a quella della produzione tradizionale. I contadini non solo vengono pagati come se raccogliessero ogni anno, ma gli viene dato un premio per stimolare il loro impegno. In questo modo, la stessa materia prima viene pagata 12 volte.  “E ci siamo accorti che in questo modo quei terreni producono oro”. 

Bisognava rendere pubblici questi particolari: con un codice di accesso sul pacchetto di pasta, i consumatori possono capire da dove viene esattamente il grano, vedere le facce e conoscere i nomi dei contadini che l’hanno seminato e coltivato, la tecnica di coltivazione e raccolta, come era il tempo quando è stato raccolto. Ma anche la faccia del mugnaio e quella del pastaio che l’hanno lavorata. Ci sono consumatori che si sono recati in questi luoghi per fare foto con i contadini, i quali man mano acquistano una nuova dignità, diventando esempio anche per gli altri, che seguono a ruota. In questo modo si vuole dimostrare che dietro ogni prodotto ci sono mille storie e che potrebbe valere la pena pagare un euro un piatto di pasta per sostenere “a monte” questo universo.  

Gli Ambassador

Quando Stefano Gabbana entra nello show room di Di Martino all’aeroporto di Napoli, si innamora dell’etichetta nostalgica che rappresenta la tradizionale italiana e l’orgoglio di essere parte di quella varietà. Ne è nata quindi una collaborazione che valorizza entrambi i partner. Per il Pastificio, essere associati con la D&G, uno dei pochi marchi di alta moda prodotti interamente in Italia, significa rappresentare l’italianità. Significa essere un prodotto tradizionale capace di essere globale e alla moda, anche di quella dei più giovani. Per D&G significa diventare pop, commestibile, slegare la propria immagine da quella di modelle troppo magre, e rappresentare invece bellissime donne e uomini che mangiano felicemente un piatto di pasta, diventando reali.

Un altro marchio con cui l’azienda ha chiuso un accordo è Mattel, simbolo del gioco per antonomasia. Mangiare, per gli occidentali, è diventato uno svago, un piacere e cucinare un gioco da fare in famiglia. La Mattel, in collaborazione con l’Università di Napoli e Slow Food, ha quindi ideato una Barbie Chef, bella e depositaria della conoscenza gastronomica e della sostenibilità ambientale.

“Barbie è un contemporary classic, come la pasta” suggerisce Di Martino. L’obiettivo è creare un divertimento che, imparando a cucinare, colleghi il padre o la madre ai figli e che promuova, al contempo, una dieta corretta e sana per combattere l’obesità infantile. In questo modo si usa un ambassador che evoca in tutti delle emozioni, si parla a due utenti, due generazioni, con un’unica azione che le mette in relazione.

Il progetto Proximity

La prossimità al cliente, la sua profilazione, la comprensione delle sue esigenze, la vicinanza territoriale e la disintermediazione sembrano essere i caposaldi della commercializzazione di prodotti di alta qualità. Per questa ragione, il Pastificio Di Martino ha lanciato un progetto di multichannel che prevede una serie di store monomarca nei quale si può vivere una dimensione immersiva, circondata completamente dal brand, molto simile a quella degli store Olivetti degli anni ‘60 o di quelli attuali della Apple o della Bose. In ogni store sono disponibili 126 formati di pasta, uno chef che li cucina in diretta, in modo che si possa creare un processo imitativo della ricetta da replicare a casa, e un “Pasta Genius” che suggerisce al cliente quali abbinamenti sono possibili con i diversi tipi di pasta a seconda della stagione. Da quel ristorante partono inoltre le consegne, sia di piatti pronti che di confezioni di pasta, a 4 km di distanza. A Napoli, ce n’è uno a Piazza Municipio, il Sea Front Pasta Bar, con 24 posti. Il Pastificio Di Martino si aspetta che il 5% del fatturato verrà da questi punti vendita. Il cliente paga un pacco di pasta quanto lo pagherebbe al supermercato, ma, evitando di riconoscere il 50% del guadagno all’intermediazione, si può investire di più nella qualità del prodotto.

Conclusioni

La storia di Giuseppe, ex allievo di Luca Meldolesi, e amministratore delegato del pastificio, dimostra la multidimensionalità dei fenomeni umani, le molte “facce della luna” richiamate dal possibilismo. La pasta è un prodotto molto tradizionale, sia nei contenuti che nel processo produttivo, che la genialità e la capacità imprenditoriale di Giuseppe Di Martino hanno saputo innovare. Ma la pasta ha anche un significato simbolico e il Fascismo, come visto, lo utilizzerà come veicolo di promozione della nazione fascista nel mondo. Infine, il Consorzio della Pasta di Gragnano e la certificazione IGP dimostrano che Di Martino è un imprenditore ma anche un attore sociale che ha saputo unire felicità pubblica e privata. Di Martino è portavoce di un approccio per il quale il benessere suo come impresa non può che passare per il benessere dei suoi colleghi e concorrenti locali. In un ambiente spesso ostile e individualista come la zona a sud di Napoli, ha portato la comunità produttiva, istituzionale e cittadina a credere che il bene collettivo è meglio di quello individuale e che la soddisfazione individuale passa per quella di tutti. Facendo bene l’imprenditore ha ottenuto risultati sociali dal valore commerciale e simbolico.

Da ricordare

Il pastificio DI Martino ha saputo reinventarsi in chiave internazionale, trasformando il limite (percepito) della perifericità meridionale in vantaggio comparato, usando l’estero per capire, riflessi negli occhi di chi ci osserva, chi siamo e dove possiamo puntare, e scoprendo che rimanere ben attaccati alle radici territoriali e alla propria comunità può rappresentare il modo migliore per competere con i grandi giganti del capitalismo internazionale.

Rinnovare il valore del prodotto: mentre il mondo si stava polarizzando tra coloro che facevano un lavoro di basso profilo per i discount e chi invece stava cercando di sviluppare il prodotto per sottrarlo al ruolo di “commodity”, Giuseppe Di Martino capisce che per uscire da quel confino bisogna aggiungere valore e che l’unico valore che puoi aggiungere, in un settore molto maturo, è immateriale.
Giuseppe Di Martino si è reso conto che il concorrente non è quello del suo paese, bensì quello tedesco, greco, turco, impegnandosi a diffondere questa consapevolezza su tutto il territorio, creando un’ambiente cooperativo tra i produttori di pasta locali.

Il grano viene seminato e raccolto ogni tre anni, in modo che la terra recuperi sostanze nutritive, ma i contadini vengono pagati come se raccogliessero ogni anno. In questo modo, la stessa materia prima viene pagata 12 volte.  “E ci siamo accorti che in questo modo quei terreni producono oro”. Grazie a questo circolo virtuoso si comincia a capire che se il contadino viene pagato a dovere, questi reagirà recuperando la sua dignità e il suo sapere e produrrà un ottimo grano. Quest’anno, per il primo anno da quando Giuseppe Di Martino è in questa attività, il grano italiano costa più di quello canadese.

 

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Paola Cascinelli è direttrice della sede italiana di una università nord-americana e insegna comportamento organizzativo in contesti multiculturali. Più in generale si è occupata per enti pubblici e privati di ricerca, progettazione e gestione della formazione per lo sviluppo personale, sociale ed organizzativo. Ha una passione per il Mediterraneo, il Meridione d’Europa e le loro potenzialità, con uno sguardo attento all’interazione tra i paesi che si affacciano sul mare blu.