Il fenomeno Entopan

Il fenomeno Entopan

Luca Meldolesi: Non si vive di solo pane

Naturalmente il pane è indispensabile. Ce lo ricorda, se non altro, la folle guerra di aggressione di Gengis Khan contro l’Ucraina, che, se non sarà fermata in tempo con la sconfitta dell’aggressore, rischia di trascinare nel baratro centinaia di milioni di persone affamate sparpagliate in tutto il mondo (e fors’anche molto di più!).
Eppure è vero: non si vive di solo pane. Ci vuole anche il companatico (si dice in Toscana) per alludere a tutto il resto – bellezza, amore, sogno, impegno, desiderio, elevazione, alta cultura, e così via. Tutto quello che per brevità chiamerò… piacere, soddisfazione.
Nella mia rivolta di lungo corso contro l’ingiustizia, la soddisfazione significa innanzitutto esser riuscito nel mio piccolo – anche in forma incrementale – a correggere (per il meglio) alcune tendenze spontanee socio-economiche e politiche della situazione in cui mi trovo: in materia di formazione, benessere, empowerment, democrazia, fraternità, uguaglianza, genere, ambiente ecc.: in una logica alternativa a quella “verticalista” del dominio/subordinazione (e quindi delle rivalità inter-nazionali ed inter-imperiali) che domina l’umanità da tempi lontani.
E’ per questo (si parva licet) che, tornando con Nicoletta da Caraffa di Catanzaro, ho dichiarato alla direzione del nostro piccolo Istituto la mia soddisfazione nell’aver potuto constatare di persona l’attuale boom di notorietà e di iniziative di Entopan (ormai avviata sulla strada dell’Harmonic Innovation Hub). E’ una logica che conosco bene. Si lavora a lungo sotto le foglie. Poi all’improvviso si viene “scoperti”, si è costretti a “straparlare” (in un mondo che ti capisce poco o nulla) innescando così una vera “sarabanda”. Per Entopan, mi pare più specializzata e coinvolgente rispetto ad altri casi. Riguarda operatori privati e pubblici, finanziari e “reali”, nazionali ed internazionali.
Naturalmente, questo “avvenimento” (chiamiamolo così) è benvenuto in quanto tale. Ma non solo: consente anche (entro certi limiti) di “svicolare” abilmente rispetto ad attenzioni indesiderate in terre difficili: dalle semplici invidie, agli sgarbi, su su fino alle politichette dei politicanti, agli interessamenti degli interessati (criminali inclusi). Perché, per definizione, quando si lavora sottotraccia non si richiama lo sguardo altrui, mentre invece, quando si è presenti nei mass media nazionali,… beh si incute un certo rispetto.
D’accordo, penserà il lettore, ma come si è riusciti in Calabria ad arrivare a questo boom sorprendente che coinvolge ormai decine e decine di operatori tra i più qualificati, anche a livello internazionale? Debbo dire innanzitutto che il merito è di Francesco Cicione e dei suoi compagni d’avventura – se non altro perché il mio mestiere non è certo quello dell’ingegnere informatico…
Quanto a Nicoletta ed a me, la nostra partecipazione è frutto di un lungo percorso educativo le cui origini risalgono addirittura a quando decidemmo di acquistare alcuni pied-à-terre in luoghi strategici in Italia e all’estero, aperti ai migliori allievi, che chiamammo (ironicamente) “il nostro lusso” e che, nel bollettino collettivo di allora (oggi ripreso dai fascicoli di Italia Vulcanica), compare come “Na Fundaçao Meravigliao”. (Non è mai stata una fondazione, sia chiaro, ma solo un’auto-presa in giro di un’altra presa in giro: quella allora ben nota, firmata Renzo Arbore).
In altre parole, il primo passo (sibaritico) è, a mio avviso, saper limitare i propri consumi (anche a livello minuscolo, da supermercato) per poter fare una vita normale (in tutti i sensi) e per destinare parte delle proprie disponibilità ad altri scopi (scientifici, culturali, sociali, valoriali ecc.)
Naturalmente, il rapporto prezzo/qualità ed il conseguente calcolo economico rimangono importanti e vanno sempre tenuti sotto controllo; ma debbono dispiegarsi giorno per giorno su ambedue i lati della propria disponibilità. Perché spesso, nella cultura mediterranea che amiamo, la soddisfazione (nei suoi termini generali evocati più sopra) viene prima del consumo opulento.
Sia chiaro, a Roma come a Lamezia,“non ci facciamo mancare nulla”. Ma, se desideriamo veramente qualcosa… – è bene confessarcelo – sarebbe che il mondo andasse un po’ meglio: “a better world” diceva Albert Hirschman.
Ora, questo atteggiamento, che pone automaticamente il soggetto in una posizione di maggior padroneggiamento rispetto alla realtà circostante (e quindi di maggiore apertura mentale nella ricerca e nell’individuazione dei viottoli possibilisti adeguati alle proprie esigenze), è risultato particolarmente costruttivo nel caso di Entopan. Perché, com’è noto, la sua bandiera recita “Provider of Innovation”. Perché Entopan ha sviluppato il suo progetto unicamente con fondi propri (evitando accuratamente quelli pubblici con i loro condizionamenti semi-sommersi e quelli privati con i loro rendimenti standard futuri attesi). E perché il Mezzogiorno abbonda di giovani dalle belle speranze che hanno un’idea industriale da mettere alla prova. Ma che non sanno francamente “che pesci prendere”…
D’altra parte – dice un proverbio irriguardoso di pseudo-saggezza – “senza denare non si canta messa” (oppure per citarne un’altro più scherzoso e mediterraneo – “dare moneta, vedere cammello”). Se si usassero quegli adagi correnti (così popolari in val padana) in una zona a più bassa disponibilità di proprietà, reddito e credito, l’esperienza dice che… non si andrebbe lontano.
Da qui allora un secondo passo: invertendo l’ordine degli addendi il prodotto cambia davvero. In altre parole, invece di dire alla giovane o al giovane che chiede collaborazione “se non mi paghi anticipato non se ne parla neppure”, bisogna dire “dimmi la tua idea; se mi convince, ti affianco nel lavoro di accelerazione (della messa a punto e del varo) del tuo progetto, con l’intesa sottoscritta che, se le cose andranno come desideriamo, comincerai a pagarmi più avanti con i primi introiti”.
Dunque, la strada è impervia: senza dubbio! Ma, se si è capaci, determinati e costanti nelle proprie decisioni (e soddisfazioni), non è affatto impossibile affrontarla.
Certo, dando fiducia (e credito in natura) ad alcuni giovani attentamente selezionati, posticipa inevitabilmente il pieno pagamento dei servizi generosamente forniti loro. Ma, sull’altro piatto della bilancia, bisogna tener conto di alcuni, indubbi vantaggi. Perché quel pronubo sentiero (chiamiamolo così) costruisce gradualmente un modus operandi che, tramite il “tamtam” spontaneo intergiovanile, facilita la propria presenza sul territorio; agevola l’affiatamento con i propri “clienti”; e soprattutto crea valore in loco (scopo ovviamente decisivo di tutta l’operazione).
E’ quanto sta dimostrando Entopan – fino ad affermarsi anche rispetto a chi ha deciso invece di indugiare sulla vecchia via (altro proverbio da rivoltare daccap’abasc: “chi lascia la via vecchia…” con quel che segue).
Il segreto, che poi segreto non è, risiede dunque (innanzitutto) nel contenere i costi, prevedere un più lungo periodo di “avviamento” (e quindi di bilanci in moderato passivo). Risiede, quel segreto, nell’impegnarsi in una “lunga marcia” di qualche annetto, piena di rischi; ma anche di inattese soddisfazioni.
Perché la capacità di “tener testa” alle avversità (accoppiata ad un intelligente lavoro relazionale) ha finito per sorprendere l’intero mondo privato e pubblico dell’innovazione (fino al californiano “Plug and Play”, l’acceleratore di Google) che ha intravisto professionalmente in quel lavorio una proposta inedita.
Vale a dire: una capacità di lavoro pratico locale (frugale ed ineccepibile) ormai affermata, accoppiata ad un grande progetto di espansione mediterranea rivolto a giovani imprenditrici ed imprenditori in erba, di ogni colore.
Insomma, tutto ciò ha richiamato energie “nascoste, disperse, o mal utilizzate”, ha interessato la finanza (nazionale ed internazionale), i mass media, i corpi intermedi, il sistema politico, i giovani. Ha attutito materialmente le difficoltà; ed ha creato le condizioni del boom. Queste a loro volta hanno messo in moto un circuito virtuoso (anche tra “i nostri eroi” di Caraffa di Catanzaro che Nicoletta ed io abbiamo trovato rinfrancati).
Eppure, l’esperienza insegna che si tratta di un risultato temporaneo. Innanzitutto perché, per ragioni diverse, quegli interlocutori (quelli stagionati di lungo corso abituati a ragionare all’antica, come quelli all’opposto di primo pelo giornalistico che vorrebbero “tutto e subito” in una battuta televisiva, e come infine i tanti a metà strada) sono ben lontani dal capire veramente di cosa si tratta (e quindi dal condividerla, anche solo in parte). Cosicché, esauritasi la spinta mediatica della “breaking news” specializzata, è facile che concentrino
la loro attenzione altrove.
A meno che… A meno che non si riesca davvero a far fronte agli eventi mantenendo i “comportamenti contadini” di partenza, elevando in Italia e all’estero (con un bel balzo in avanti) il livello culturale e professionale dei protagonisti, rafforzando le loro capacità direttive, e tenendo ben saldo il timone – fino al famoso “passaggio a nord-ovest” futuro atteso, ed oltre.
Vale a dire: ci troviamo di fronte ad un esercizio di “salto con l’asta”. Perché “la mano che nasconde” (che finora occultava parte delle difficoltà), sospinge adesso potentemente i soggetti in campo a concentrare ed a qualificare le loro energie per “saltare l’ostacolo” (e forse per iniziare così, inavvertitamente, una nuova fusione umana teorico-pratica)…

Francesco Cicione: Post-scriptum

Frequentemente mi viene chiesto: quale è il vostro “modello” di business?

Inutile sottolineare che la domanda, molte volte, nasconde scetticismo nei confronti della nostra esperienza.
Questo atteggiamento è, probabilmente, figlio di un sapere aziendalista che vede come criteri cardine il fatturato, l’equilibrio tra costi e ricavi, la quantità prima della qualità (e quest’ultima solo a corredo della prima).
Ogni volta che quella domanda mi viene posta, prima di rispondere, per uno strano ed incondizionato meccanismo, mi passano velocemente per la mente due immagini.
La prima riguarda Luca e le più che opportune osservazioni che lui potrebbe fare sul concetto di “modello”.
E’ noto, infatti, come Luca, dopo aver studiato a fondo i modelli logici (e matematici) di Ricardo, di Sraffa, di Marx e di Bortkiewicz, dopo aver generalizzato quello di Pasinetti (per un phd di Cambridge UK che non ha mai concluso causa ’68) ed aver inventato quello di Braudel, abbia infine incontrato Hirschman: ed, a quel punto… abbia smesso di costruir modelli.
E negli anni, Luca, proprio questo ci ha insegnato: ad uscire dalla gabbia dei “modelli” per i “modelli”, sorprendere con “modelli” che non sono “modelli”, trovare soluzioni sempre più utili ed effettive elaborando “modelli” che mettono in crisi i “modelli” consolidati, essere liberi da ogni intransigenza, con la disponibilità intellettuale ed operativa a trovare ogni volta lo “stratagemma” più efficace a generare vero sviluppo, credere nel potere delle “benedizioni mascherate”.
La seconda riguarda le tante retoriche in cui siamo immersi che per una strana eterogenesi dei fini diventano, appunto, “modello” di riferimento, aldilà dei fallimenti che esse recano in dote e, per conseguenza, della loro strutturale inadeguatezza ad esser considerati “modelli”.
Infatti, grazie a questo pericoloso meccanismo di rimozione collettiva siamo costantemente bombardati dallo story-telling della sostenibilità, degli impatti, delle grandi sfide di transizione, del sostegno alla crescita dei territori deboli… Eppure, molte volte, a tutto ciò con corrisponde un reale impegno a sperimentare ed implementare “modelli” capaci di sostenere i costi (finanziari, industriali, culturali, psicologici, normativi, professionali) di questa inderogabile prospettiva: c’è sempre il rischio che la “conservazione” vinca
sull’”innovazione”, quali che siano le intenzioni (reali o presunte).
Dopo questo abituale flashback provo, quindi, a dare una risposta alla domanda che il mio interlocutore mi pone, ma so già che potrebbe non esser compresa.
Provo a spiegare che il nostro “modello di business” è semplice e si sviluppa in due fasi.
Nella prima, quella che stiamo ancora vivendo e che durerà ancora per almeno cinque anni (dopo i cinque già trascorsi) l’obiettivo non è stato e non sarà quello di produrre ricavi, bensì di sostenere una oculata e tenace politica di investimenti finalizzata alla creazione di un ecosistema aperto, capace di generare valore (finanziario, industriale, culturale) grazie alla qualità e la varietà della biodiversità che lo compone. In questa prospettiva stiamo lavorando e lavoreremo ancora per attrarre grandi player, grandi fondi di investimento, grandi centri di ricerca e di competenza, le migliori start-up e pmi innovative, i più brillanti manager e giovani talenti, con l’obiettivo di favorire una effetto magnete esponenziale (più l’ecosistema cresce in qualità e quantità più diventa attrattivo e potenzia la propria capacità di crescita e di generazione di “valore”).
Nella seconda fase, invece, l’obiettivo sarà quello di capitalizzare gli sforzi sostenuti nella prima fase, grazie agli effort che deriveranno, attraverso una semplice operation-fee (del 10%), dal valore delle operazioni di investimento, di collaborazione industriale, di sviluppo di know-how innovativo, che l’ecosistema sarà in grado di creare.
Concretamente, l’obiettivo è quello di generare, a regime, operazioni per almeno 200mln di euro all’anno (circa 10 da 20mln di euro in media, su altrettante growth & late stage companies) che produrranno a loro volta l’effort (del 10%) necessario a garantire l’operatività dell’ecosistema e la remunerazione degli investitori che ne hanno sostenuto la strutturazione nelle fasi precedenti.
In questa prospettiva l’ecosistema sarà libero dalle più soffocanti logiche di mercato e risulterà funzionale a traiettorie autenticamente impattanti quali: (1) la creazione di valore diffuso attraverso la generazione di dealflow qualificato; (2) lo sviluppo di relazioni collaborative strategiche ed industriali stabili tra gli stakeholder; (3) il supporto al venture building dei target di investimento ed alla implementazione delle relative attività volte alla crescita ed alla creazione di impatti in coerenza con gli obiettivi ESG e di sviluppo
sostenibile.
In buona sostanza, vincono tutti: perché il “modello” non è stato pensato per far vincere solo “qualcuno”.
Questo “modello”, infatti, discende da una semplice intuizione “possibilista”: applicare su scala aziendale e nella piccola dimensione un approccio tipico delle migliori e più riuscite policy di sviluppo territoriale (Silicon Valley docet), assumendo ed accettando che un misurabile e strutturale “salto di scala” può avvenire solo a seguito di un paziente e pianificato processo di fertilizzazione, in assenza del quale si potranno generare probabilmente profitti, ma mai valore in senso ampio.
In questa cornice, inoltre, l’azienda privata finisce per impersonare una funzione pubblica, addirittura esercitando una azione poietica nei confronti della Pubblica Amministrazione (non è infatti un caso che molte PA – Europee, Nazionali e Regionali – stiano iniziando ad interessarsi e ad avvicinarsi alla nostra esperienza).
Appare evidente che una impostazione di questo tipo fa del nostro lavoro un progetto di comunità; che, a sua volta, ha bisogno di una comunità di progetto (investitori, team, stakeholder) capace di comprenderne e sostenerne la “vision” per tutto il tempo che sarà necessario.
Confesso che nei primi anni è stato davvero molto complesso, anche per buona parte dei tanti compagni di viaggio che si sono via via uniti in questo percorso, comprendere pienamente quel che stavamo provando a fare.
Non posso che esser grato per la fiducia, mai scontata e mai dovuta, che tutti hanno avuto e che per me è stata costantemente motivo di grande sostegno; ma anche di grande responsabilizzazione. Ho sempre temuto (ed ancora oggi temo) di tradire questa fiducia, proponendo obiettivi troppo complicati da raggiungere e che, per alcuni versi, potrebbero addirittura apparire velleitari.
Tutto questo mi ha sempre spinto (e mi spinge tuttora) a dare sempre di più così come, altre volte, mi sovrasta e mi fa sentire impotente (“un po’ di autoironia aiuta” mi ricorda spesso Luca).
Oggi, l’orizzonte si sta via via schiarendo per tutti; e questo è per me, progressivamente, motivo di sollievo poiché mi fa sentire meno solo nella assunzione delle responsabilità che sono richieste in questo cammino difficile. Sovente, esso presenta infatti profili inediti: non solo sul piano operativo, industriale e finanziario; ma anche su quello della “compliance” normativa e di quella regolamentare, rispetto alle quali è sempre difficile l’interlocuzione con gli organi preposti; mentre è sempre dietro l’angolo il rischio di un errore, di un
fraintendimento o finanche di un contrasto non voluto, che potrebbe compromettere tutto.
C’è molta strada da fare, ancora, quindi e non mi stancherò mai di ripetere che il nostro è un progetto bello ed entusiasmante ma, nel contempo, fragile, molto fragile (proprio a causa dell’ambizione e della complessità che lo caratterizza).
Infatti per mettere in sicurezza il cammino percorso fin qui saranno necessarie tre cose:
1. attrezzarsi per difendere il patrimonio (aziendale, culturale, sociale) accumulato, proteggendolo dai
tanti che leggono erroneamente come una minaccia le esperienze nuove e di rottura rispetto alle abitudini ed agli equilibri correnti;
2. attrezzarsi per consolidare una struttura di management adeguata, sia culturalmente che operativamente, alle sfide che ci attendono;
3. attrezzarsi per portare fino in fondo – sia sul piano culturale che su quello operativo – il “modello non modello” che abbiamo costruito, convincendo gli investitori a sostenerlo con fiducia anche nell’ultimo decisivo (ma più rilevante) sforzo.
Qui parrà la nostra nobilitate (e non solo!).
Ce la faremo? Ai posteri l’ardua sentenza.
In ogni caso sarà stato bellissimo averci provato.
Ed aver dimostrato che l’insegnamento teorico-pratico che Luca ci ha trasferito non era non solo “possibilista”, ma anche… possibile!
E che era giusto provare a dargli concretezza operativa.