Letterine di Capodanno

Letterine di Capodanno

1 – L’Australia e l’Asia
Come vorremmo il 2018?
Beh più “civilizzante” del 2017!
E poi ci piacerebbe riuscire ad arrivare un po’ dappertutto.
Ma dobbiamo essere pratici.
Noidell’”A Colorni-Hirschman International Institute” pensiamo innanzitutto a nuovi
ressamblements.
Dopo Boston, potrebbe essere la volta di New York, di Washington, o di Berlino, poi di Buenos
Aires.
Insisteremmo, cioè, sui tre continenti di Albert.
E tutti gli altri?
Leslye Obiora un’ex-Ministro delle miniere della Nigeria, creativa ed imponente come pochi, ha
lasciato in tuti noi un ricordo indelebile. E poi abbiamo avuto la vista di Mark Considine, il Dean di
OldArts dell’Università di Melbourne, con 18 post-graduates a Firenze. Perché nel campo dell’arte
e delle scienze sociali, l’Australia svolge oggi per l’Asia il ruolo che un tempo ricopriva l’UK per il
Continente europeo.
Così, Nicoletta ed io ci siamo trovati di fronte giovani filippini, indonesiani, cinesi, malesi, indiani…
Cosa volevano sapere?
Una “lecture” sullo sviluppo a livello popolare, sull’interazione tra conoscenze tacite e gusto,
cultura, arte…
Così, mentre ricordavamo che il sostrato sociale contadino ed artigiano di tante regioni italiane ha
consentito tanti progressi al nostro paese e che la sfida oggi non è negarlo, ma tecnologizzarlo,
vedevamo signorine indonesiane, filippine, cinesi ecc. dagli occhi vispi che annuivano con la testa.
E poi dicevano: anche a casa mia si potrebbe provare…
Cari amici, il potenziale di crescita, di libertà, di democrazia, d’incivilimento nel mondo intero è
immenso!
Cerchiamo di dargli una mano…
Buon 2018 a tutti!
Luca Meldolesi
(con Nicoletta da Parigi)
 
2 – Barchette, velieri e caravelle: l’Europa, il federalismo e noi. Parigi, 1.1. 2018
Come “capirci (e capirsi): un po’ di più”? – mi son domandato, durante questo capodanno parigino di Nicoletta e mio.
Un modo è forse quello di riprendere il discorso da quella famosa conferenza sull’Europa di Romano Prodi di fine settembre di cui vi ho già parlato. Quattro secoli fa – egli sostenne al Center for European Studies di Harvard nel settembre scorso – l’Italia scomparve dal novero dei paesi che contano perché, per quasi un secolo e mezzo, i cinque stati principali che allora si dividevano la Penisola non si accordarono ad armare le caravelle necessarie ad esplorare il pianeta. Così grandi italiani, come Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Antonio Pigafetta, lavorarono per i re di Spagna o del Portogallo; poi arrivarono le caravelle della Francia, dell’Olanda, del Regno Unito – mentre l’Italia, nonostante il suo splendore rinascimentale… abbandonò la scena. Analogamente – aggiunse Romano – l’Europa rischia oggi di scomparire perché nemmeno una delle caravelle moderne ( come Google, Amazon, Facebook, o Alibaba) è “made in Europe”, mentre le divisioni tra i principali paesi europei impediscono loro di lanciarsi alla rincorsa.
Prendiamo per buona questa tesi di Prodi. Ed osserviamo innanzitutto che essa viene proposta in un momento in cui, invece, “eppur si muove”: alludo, è chiaro, al subbuglio attuale del “versante europeo”. Forse vi è qualcosa di vero nel paradosso (auto-ironico) secondo cui, dopo la Brexit, il maggior promotore della costruzione europea sarà probabilmente Donald Trump; nel senso che, per reazione, costringerà l’Unione europea a fare qualche passo in avanti – via Macron, e/o (magari) ciò che sta bollendo in pentola in Germania. Ma anche da Parigi basta fare un giretto mentale nei pressi del gruppo di Visegràd (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) per rendersi conto che indubbiamente non andremo molto lontano (a parte la sicurezza). “Ci vorrà del tempo” – affermò un quarto di secolo fa Albert Hirschman riferendosi ai paesi ex-comunisti. Previsione azzeccata; che tuttavia non ci aiuta, di per sé, ad intravvedere una via d’uscita. ..
Non basta, dunque, la pax europea (che troppi danno per acquisita); non basta il desiderio di “contare” – magari come gli Stati Uniti, la Cina, o la Russia (domani l’India). Ci vorrebbe una rivoluzione nel pensiero e nell’azione. Ci vorrebbe un traguardo ulteriore che sopravanzasse tutti gli altri e che coinvolgesse parti almeno degli altri continenti. Perché nella visone originaria di Eugenio e di Albert il federalismo europeo avrebbe dovuto rappresentare l’anticamera della sconfitta finale dei nazionalismi, e della federalizzazione mondiale. Certo, oggi abbiamo imparato che tutto ciò non potrà avvenire dalla sera alla mattina; che non potrà che esser graduale, progressivo, tortuoso, solcato da pericolosi ritorni di fiamma; che caratterizzerà un’intera epoca (o anche più epoche storiche). Ma questa diluizione nel tempo (chiamiamola così) non cambia (e non cambierà) la prospettiva, né la determinazione necessaria a perseguirla. Anzi, la riproporrà: probabilmente come uno degli analoghi contributi che potranno sorgere in futuro ai quattro angoli del pianeta – pena ricadere altrimenti sotto il dominio pericolosissimo delle rivalità inter-imperialistiche e delle sue terrificanti conseguenze belliche su scala mondiale.
Per riassumere: è dunque l’alternativa di Eugenio e dei suoi amici tra nazionalismo e federalizzazione che domina ancor oggi la scena mondiale; che spinge a schierarsi per la seconda, e dunque per lo sviluppo mondiale, per la costruzione dei mille velieri e delle cento caravelle, per più libertà, più democrazia, più solidarietà, più giustizia; e quindi anche per più Europa, per una nuova Europa, per l’affermazione world-wide di questa “buona novella” di origine europea.
E’ una montagna immensa che ha partorito un topolino, si potrebbe controbattere; è una barchetta che pretende di affrontare un mare in tempesta: immagini ironiche, certo, che sottolineano impietosamente i limiti del nostro lavoro, ma che non ne mettono in discussione né l’interesse, né la validità. Perché – si può elucubrare a livello ipotetico (possibilista) – è proprio la congiuntura politica tutt’altro che favorevole che può secernere, come sottoprodotto, qualche apertura inattesa. Se non altro, mi pare questo lo sfondo più promettente su cui possiamo discutere (ed interpretare almeno in parte) le nostre ultime vicende. Vengo allora alla domanda di avvio, e propongo di interrogarci (con calma, pazienza e concretezza) sul perché “facciamo quello che facciamo”.
Qui, finalmente, si comincia ad intravvedere “qualcosa di più” del solito. E’ vero, negli ultimi quattro secoli molti grandi italiani hanno cercato di risalire la china, riuscendoci solo in parte. E’ vero – soprattutto per paesi come il nostro che non sono dominanti (e che, fortunatamente, non intendono esserlo) – tutti guardano verso l’alto, e non verso il basso: di tanti paesi (e non solo di quelli di Visegràd) non ne sappiamo proprio nulla. Senza neppure accorgercene, ci concentriamo sui fatti nostri e verso un’ascesa desiderata (ad imitazione di chi ci precede) che spesso ci sfugge di mano. Ci arrabattiamo quotidianamente all’interno del nostro (angusto) orizzonte politico. Cerchiamo di tirarci su, con scarso successo. Soffriamo perché su questo o su quell’aspetto della nostra vita individuale o collettiva non siamo ancora “a livello europeo” – non meglio specificato.
Ma forse –primo punto – non è l’unico orizzonte a cui possiamo riferirci. Forse, ciò che è successo negli ultimi mesi all’”A Colorni-Hirschman International Institute” ce lo suggerisce; e nello stesso tempo, ci pone una serie d interrogativi. Perché –domandiamocelo – è accaduto proprio a noi di prendere l’iniziativa del rassemblement hirschmaniano? Esistono, certo, delle ragioni soggettive. Perché gli altri che si richiamano ad Albert Hirschman non hanno potuto e/o voluto. E perché? Perché non erano pronti e/o perché una tale iniziativa non faceva parte del loro “radar mentale” – per una serie di ragioni che probabilmente sono molteplici e differenti tra loro: per tanti americani, tedeschi, francesi, brasiliani, latinos… Invece a noi, come primo passo, è andata bene, nonostante le difficoltà. Chi ricorda il voltafaccia di Joan S, la “melina” degli economisti “hirschmaniani” di Harvard, i “fattacci” che hanno travolto quel tal filosofo di Yale? Effettivamente, abbiamo dovuto sudare sette camicie; ed anche la soluzione che infine abbiamo trovato si è rivelata ex-post tutt’altro che “candida”. Insomma, siamo passati a fatica per la cruna dell’ago, per il rotto della cuffia; ma siamo passati – per un misto di destrezza, d’insistenza e buona sorte. Non è certo detto che andrà sempre così. Anzi, dobbiamo preparaci ad affrontare si situazioni ancor più difficili – in Europa ed in altri continenti.
Secondo punto: esistono poi delle ragioni oggettive. Nonostante tutto, la cosa è riuscita al di là delle nostre più rosee aspettative. Perché è riuscita partendo da Roma e non da un’altra capitale? Perché, paradossalmente, l’Italia è ancora “tagliata fuori”? Perché non fa paura (o soggezione) ad anima viva? Perché è desiderata (e talvolta invidiata)? Perché tanti vengono a trovarci per capire la nostra “arte di vivere”? Perché altri vorrebbero imparare da noi come far progressi a casa loro? Beh, qualcosa di vero in tutto questo c’è. Fernand Braudel diceva che l’Italia ha il vantaggio di esser stata più volte al centro dell’economia-mondo e di non sentire più il bisogno di bruciare (nostalgicamente) le sue straordinarie energie per un fine che sarebbe irraggiungibile. Da qui una certa ambiguità della nostra vita collettiva: da un lato, come dicevo, ci affanniamo giustamente “sul pezzo”, dall’altro ci domandiamo se ne vale la pena; da un lato concentriamo i nostri sforzi, dall’altro viviamo una condizione culturale peculiare, che ci consente fortunatamente anche un po’ di respiro – se sappiamo ghermirlo per trovare la strada (che non è mai unica) e per raggiungere nuovi traguardi, naturalmente.
Voglio dire (terzo punto), che non siamo stati (e non siamo) necessariamente schiavi del “così fan tutti”; che abbiamo avuto (ed abbiamo ancora) un po’ di libertà di movimento in più; che il lavoro teorico-pratico che abbiamo svolto a lungo in una logica colorniana ed hirschmaniana ci ha condotto infine, quasi naturalmente, a prendere un’iniziativa internazionale straordinaria; ad esser noi ad interpellare gli altri, piuttosto che viceversa. Naturalmente – l’abbiamo detto – avremmo preferito una maggiore iniziativa altrui. Ma è chiaro che per noi la stessa esistenza degli “hirschmaniani di tutto il mondo” (anche di quelli che non sanno ancora di esserlo), il reagire positivamente di alcuni di loro alle nostre sollecitazioni è già stato (e potrebbe essere ancor più in futuro) un “asset” incredibile, che dobbiamo in ogni modo coltivare. Perché è con loro che possiamo uscire dai nostri confini, pubblicare urbi et orbi, costruire un’attività potenzialmente worldwide – speriamo duratura. E’ con loro che possiamo raccogliere temporaneamente (e per quanto sarà possibile) la “Legacy” di Albert Hirschman, trasformandola in proposte ragionevoli per “tutti quanti”, alternative a ciò che passa oggi il convento internazionale.
Quarto: si tratta, è chiaro, di un punto di vista che va articolato e sviluppato in modo differente a seconda dei luoghi (regioni, paesi, continenti) e dei loro processi evolutivi. Ma l’importante è che, anche per gradi, tutti lo possano percepire. Qui si giunge allora ad un altro aspetto importante. Avrebbe avuto senso convocare la Conferenza di Boston dell’ottobre scorso se non avessimo lavorato a lungo, praticamente, nel Sud e per il Sud d’Italia? Francamente penso di no. Perché, anche se la presenza latinoamericana e di altri paesi meridionali è stata ancora modesta, è stato chiaro, però, che abbiamo molto da dire (e da dare) loro, proprio per il tipo di esperienza condotta fin qui. Ed è stato chiaro, dunque, che ci muoviamo in una prospettiva generale, che trascende le angustie del pensiero “settentrionale”. In altre parole (e con buona pace degli amici milanesi) è il Mezzogiorno che può parlare innanzitutto al Grande Sud del mondo, quello che ospita la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, quello in cui è più sentita la necessità del cambiamento e del progresso: in ogni ambito della vita umana.
Dunque – quinto punto – rispettiamo tutti, ma, partendo da Sud, cerchiamo di elevarci al di sopra delle “baruffe chiozzotte” di una tradizione italiana non sempre felice: facciamo appello al meglio della nostra tradizione culturale, e coinvolgiamo via via questa o quella parte dl paese nella “grande avventura” che ci aspetta. E, se le cose continueranno a procedere come desideriamo, e se i suoi effetti positivi di ritorno sul nostro paese cominceranno a farsi sentire (e se la nostra autorevolezza crescerà di conseguenza, anche in patria), prenderemo di mira il governo nazionale e quelli regionali, perché (finalmente!) ci diano ascolto: sul debito, sull’amministrazione, sulla regolarizzazione, sulle imposte, sull’accoglienza, sugli italici, sui beni culturali ecc.
Da qui scaturisce, infine, il programma dell’Istituto che ci impegnerà a fondo nei prossimi mesi. Cercheremo di fissare una nuova “Conference on Albert Hirschman Legacy” entro l’anno (a New York o a Berlino); di prepararla a dovere, sia in generale, sia in loco; di lanciare nell’etere, tramite il nostro intero indirizzario, il n. 3 di “Long is the Journey…”, la rivista on line del nostro Istituto disponibile in www.colrnihirschman.org ; di proseguire nella pubblicazione dei libri in inglese (oltre che in italiano), a partire da For a Better World, l’e-book di estratti della Conferenza di Boton; di socchiudere alcune frontiere ulteriori – territoriali (Argentina) e settoriali (imprese, beni culturali). Cercheremo di mobilitare via via le nostre forze (campane, calabresi, siciliane ecc.) in appositi incontri, verificando gli “improbabili” e rilanciando i “mini-premi” per le nuove generazioni; di irrobustire il lavoro dell’Istituto e di tutti coloro che fanno ad esso riferimento – chiarendo le prospettive che si stanno aprendo di fronte a noi: per rilanciarle con maggior vigore. Cercheremo, in sostanza, di farci sentire (sempre di più) in una logica di affrancamento federalista generale; e di affievolimento progressivo delle gerarchie, dei rapporti di potenza, e delle loro perniciose rivalità.
Auguri a tutti!
Luca
 
3 – Capodanno 2018
Osservazioni sulla nostra Albert Hirschman Legacy
Prima si vive un’esperienza e poi si riflette su di essa – ci ha insegnato Clifford Geertz. Evidentemente “ce la siamo sentita” di chiamare a raccolta a Boston lo scorso ottobre gli aficionados di Albert. Eppure sarebbe bene capir meglio il perché.
Innanzitutto – l’ho scritto altre volte – non abbiamo alcuna pretesa di esclusività. Molti altri avrebbero potuto prendere l’iniziativa. Penso al consistente gruppo americano degli amici degli Hirschmans legato alla Francia; e poi al fatto che da Parigi, da Berlino, da Buenos Aires, da Sao Paulo o da Mumbai possono esistere tante “Legacies” differenti – senza parlare dei punti di vista individuali, naturalmente. Qualcuno, comunque avrebbe dovuto cominciare questo lavoro di rassemblement perché il vasto network di amici di Albert è solo potenziale. Se non viene richiamato in vita, lascia ognuno nell’isolamento, alla mercé delle varie esigenze professionali e disciplinari; e quindi, alla lunga provoca la dispersione dell’esperienza complessiva.
Tuttavia, l’aver interpretato (ed il desiderio di voler continuare ad interpretare) un’esigenza effettiva come questa non ci esime certo dal chiarire meglio a noi stessi e ad altri di che tipo di Legacy stiamo parlando; e che rapporto di continuità e d’innovazione essa sottintende. Ciò mi sembra indispensabile: sia per poter agire in modo più consapevole, sia per capire meglio gli altri – anche perché vorremmo sempre più coinvolgerli. Ora, più lavoro sull’Albert giovane, più mi rendo conto che egli ha dovuto affrontare un lungo periodo di apprendistato – anche per rivivere a suo modo l’insegnamento di Eugenio e farlo sbocciare altrove: nelle scienze sociali. Non solo: riflettendoci, mi pare di poter dire che, mutatis mutandis (e fatte le debite proporzioni), qualcosa del genere è accaduta anche a me, come transizione da una precedente coscienza teorica all’acquisizione di un nuovo punto di vista: in parte corrispondente, in parte autonomo rispetto a quello di Hirschman. Infatti, tutti noi siamo (e siamo sempre stati) quelli del dire e del fare; ed anche per questo abbiamo sempre sentito un’elevata empatia con Eugenio. Ed ora che le vicende più recenti ci hanno consentito un approfondimento in proposito, abbiamo finito per rivendicare anche una nostra particolare “Legacy” rispetto ad Albert. Non è così? Il nostro riposizionamento interno non è forse figlio legittimo del nostro riposizionamento esterno?
Ma, se le cose stanno così, dobbiamo anche essere onesti (e coerenti) con noi stessi ed interrogarci, certo, come sono andate effettivamente le cose da un secolo (o giù di lì) a questa parte; ma anche come avrebbero potuto andare. E’ un esercizio di possibilismo retrospettivo che diventa subito interessante se ci chiediamo cosa sarebbe successo se Eugenio fosse sopravvissuto (ed avesse deciso di vivere con Luisa Villani Usellini) (Renata Colorni ha raccontato a Nicoletta ed a me quanto Luisa V. si sia sentita legata ad Eugenio per tutta la vita…). Allora ad Algeri nell’Us Army, Albert fremeva dal desiderio di rivedere Eugenio: avrebbe certamente riannodato la vecchia amicizia (ed è anche possibile, a mio avviso, che avrebbe corretto qualche ingenuità di National Power). Ma soprattutto è probabile che il duplice scontro del dopoguerra che ha segnato un’epoca – quello di Sarah con Ursula e di Albert con Altiero – non si sarebbe verificato. Perché Eugenio si sarebbe interposto, avrebbe mediato (con l’abilità politica che ormai, per testimonianza di Giuliano Vassalli, gli va riconosciuta); e, con ogni probabilità, avrebbe preso autonomamente iniziative sorprendenti con i giovani federalisti socialisti che, tra l’altro, gli avrebbero consentito di dialogare con gli uni (gli Hirschmans) e con gli altri (gli Spinelli). Invece le cose andarono come andarono creando “nella famiglia” strascichi dolorosi e beffardi che a lungo abbiamo fatto fatica a padroneggiare (Solo superati i 70 anni dalla morte di Eugenio abbiamo potuto creare la collanina dell’Istituto…). Qualcuno ricorderà che nel 1994, Paoletto, a mia insaputa, ebbe l’idea disgraziata di dire ad Albert che avrebbe voluto fare una tesi sul rapporto tra lui ed Altiero. Albert ebbe un tale attacco d’ira (cosa del tutto inusuale per una persona controllata come lui) che per calmarlo dovetti assicurargli che mai e poi mai avrei assegnato una tesi di quel genere a Paoletto (che peraltro, mai e poi mai, sarebbe stato in gradi di concluderla!).
In altre parole, la nostra “Legacy” intende riconoscere i meriti di ciascuna delle nostre dramatis personae – inclusi quelli di Ursula e di Altiero nel loro difficile periodo federalista “movimentista”. Vogliamo capire come l’una/o e l’altra/o è riuscita/o a fare quello che ha fatto – senza per questo tacere sui limiti di ciascuna/o. Intendiamo farlo dal nostro punto di vista, che è quello del dire e del fare; quello che punta sempre al risultato (culturale, politico, economico, psico ecc.). Comunque, Albert riuscì a mantere un rapporto familiare continuativo con le sorelle romane. E ci sarà in seguito un certo ammorbidimento dell’antagonismo con gli Spinelli, che tuttavia non è mai scomparso. Anche Ursula ed Altiero – mi disse Albert ad un certo punto – hanno finito per scoprire il possibilismo (d’alta quota) nei primi anni ‘60. Anche qui bisognerebbe capire meglio sia dal lato di Sarah e di Albert (il loro processo interno, le conseguenze dell’immersione latinoamericana) sia da quello di Ursula e di Altiero (federalismo e inizio dell’Europa). Ma il punto è che il risultato finale non ci ha mai soddisfatto, soprattutto perché, nonostante Manlio Rossi-Doria, Albert non ha mai previsto che il Mezzogiorno potesse diventare un vero protagonista.
Qui si giunge ad un altro punto importante. Per noi è oggi naturale riprendere il discorso dall’Eugenio di Ventotene, di Melfi e della resistenza romana perché corrisponde a ciò che cerchiamo di fare: mostrare, cioè che, partendo dal Mezzogiorno, la nostra problematica può investire l’Italia ed il mondo intero. Non era l’atteggiamento di Albert che si manteneva, invece, all’interno della dicotomia sviluppo-sottosviluppo. A lungo ho pensato che il suo interesse per l’America Latina oscurasse paradossalmente quello per il Sud italiano. Ma poi mi sono reso conto che non è questo il punto. Oggi penso che non si può chiedere d un uomo di 70 anni (quello che abbiamo conosciuto) la stessa duttilità di un giovane. In fondo l’ha confessato lui stesso quando ha svelato la sua propensione alla auto-sovversione. Albert, esule dalla Germania, si era costruito a fatica una identità franco-americana, fino al punto di pretendere di parlare in francese (e non in tedesco) con le sorelle per 40 anni! Considerava Parigi la sua città d’adozione. La sua partnership con la moglie Sarah (russo-lituana d’origine) era tale che a lungo il francese era stato la loro “lingua di casa”. Fin da giovane, Albert veniva in Italia da Parigi e lì poi tornava (anche se poi si lamentava di non essere capito…).
Quindi, per tante ragioni (comprese quelle accennate nelle parti precedenti di questo ragionamento), la nostra “Legacy” propone in realtà un riposizionamento, in un’epoca in cui la rigida suddivisione postbellica tra sviluppo e sottosviluppo si è molto attenuata ed in cui le caratteristiche peculiari del Mezzogiorno e del nostro Paese (che, come potenziale, Albert ha indubbiamente sottovalutato)ci incoraggiano a tentare. Conclusione: l’inizio di questo lavoro è stato promettente. Ma non dobbiamo illuderci. Si tratta, in realtà, di una prospettiva da costruire per gradi con una varietà di strumenti (sito conferenze, giornate Hirschman, pubblicazioni ecc.) e con grande costanza e determinazione (contro l’abulia e l’opacità imperanti)– senza farci mai distrarre. E ancora: tenendo presenti le “Legacies” altrui ed incoraggiandole ad organizzarsi autonomamente per accrescere il dialogo ed i risultati complessivi.
 
4 – Berlino vista da Parigi
Cari amici, una delle ragioni del nostro viaggetto a Paris-Brux risiedeva indubbiamente (ed implicitamente) nel desiderio di capire meglio cosa, noi dell’Istituto C-H potremmo fare in Europa. D’accordo. Ma cosa andremmo a dire (ed a fare) a Berlino in un’eventuale Conference? – mi domanderete. Tante cose. Ma una di esse svetterebbe inevitabilmente sulle altre: il rilancio (mutatis mutandis) delle politiche di Eugenio e di Albert per e sull’Europa. Sarebbe così: per cento ragioni e più. E poi Marianne Egger me lo ha chiesto esplicitamente a Boston e sarebbe certamente delusa se non ci impegnassimo in proposito. Anzi, se ci decidessimo per Berlino, sarebbe bene farlo capire fin d’ora.
D’accordo. E cosa sarebbe quel rilancio colorniano-hirschmaniano? Qui è bene parlare prima di Eugenio (che era di cultura italo-tedesca) e poi di Albert (che era nato a Berlino). In estrema sintesi, mi pare di poter condensare il contributo di Eugenio nelle seguenti proposizioni:
– La proposta dell’Europa federata ha fatto epoca (è un’autentica scoperta di Ventotene nel campo della politica) non solo in quanto tale, ma per l’effetto a catena di fuoriuscita dal nazionalismo (e di affermazione del federalismo) che potrebbe produrre sul mondo intero. Evidentemente, per Eugenio l’unità europea non doveva essere soltanto inward looking, ma anche outward looking: in grado di mettere in moto il grande mondo che (economicamente, socialmente, politicamente, culturalmente) gravitava sull’Europa (In proposito, per attualizzare il ragionamento, ho trovato utile l’esemplificazione di Tommaso Padoa-Schioppa in Europa forza gentile p… E’ vero, ancor oggi mezzo mondo gravita economicamente sull’Europa; nel senso che quest’ultima è la più grande piattaforma commerciale del pianeta, senza contare, naturalmente, i legami storico-culturali, le diaspore ecc.). Ciò avrebbe richiesto, a sua volta, politiche economiche espansive, ben diverse da quelle dell’austerità oggi correnti.
– Nel 1943, Eugenio si era reso perfettamente conto che le grandi potenze che stavano per vincere la guerra sarebbero comunque intervenute sugli assetti politici dei paesi sconfitti. E ritenne che le masse popolari dovevano partecipare attivamente, anche per via insurrezionale, alla guerra contro il nazifascismo: per fare in modo che le soluzioni successive (inclusa l’unità europea) fossero il più possibile nell’interesse dei popoli. Vittorio Coda, a cui ho fatto leggere alcuni passi, è stato colpito dalla preveggenza di Eugenio. Ma ora, a quasi trent’anni di distanza dalla caduta del muro, con un’amministrazione americana che ritiene di dover ridimensionare significativamente il suo ruolo, e con la ripresa del dibattito sulle prospettive europee, mi pare che dobbiamo porci di nuovo il problema di quale trasformazione europea e mondiale sarebbe auspicabile.
Bisogna dunque tornare alla concezione originaria; confrontarla con lo stato di cose presente; mutatis mutandis riproporre (come elucubrazione possibilista) il grande affresco del cambiamento desiderato; ed interrogarci, ispirandoci ad Albert, sulle centro strade concrete che, magari per gradi, potrebbero facilitare tale compito.
Non si tratta, naturalmente, di sottovalutare quanto è stato fatto fin qui (tutt’altro!); ma di capire che è ora necessario un capovolgimento, una soluzione di continuità per rimettere il problema europeo al centro del discorso. In questo momento, in Francia si accarezza la possibilità di una riforma dell’Europa che tenga testa agli Us (ed alla Cina) tramite progressi nell’integrazione strutturale e nella liberalizzazione dei mercati. E in Germania? Com’è noto, è in ambasce post-elettorali, cosicché è troppo presto per dirlo. Ma si comincia a capire l’ordine dei problemi (Mi riferisco soprattutto ad un sorprendente articolo di Alexis Dirakis – “Le rassorts du consensus allemand sul l’Europe” – comparso su Le débat (nov.-dic. 2017), che mostra, tra l’altro, un inedito interessamento culturale del centro-sinistra francese per ciò che si pensa effettivamente in Germania: finalmente! “La colpevolezza tedesca – vi si legge (p.67) – diventa il motivo di un nuovo universalismo”). In particolare mi ha interessato l’idea, presente sul lato destro, come su quello sinistro (Da Lafontaine, il fondatore di Die Linke, ad Habermas, il maggiore intellettuale SPD) dello schieramento democratico tedesco, secondo cui la colpa storica tedesca attribuirebbe alla Germania una responsabilità speciale nei riguardi della gestione dell’Europa: al di là dei suoi interessi statuali; e sulle orme, in un certo senso, della grande tradizione (di ben otto secoli) del Sacro Romano Impero (il cosiddetto Reich tedesco).
Indubbiamente, a chi ha poca dimestichezza con Berlino questa tesi può apparire paradossale (una colpa che fonda una responsabilità e forse un diritto?), oppure stravagante. Ma a chi, come è accaduto a Nicoletta a me, negli anni, ha potuto constatare di persona, con una certa meraviglia, l’insistenza quotidiana dei tedeschi sul tema della colpevolezza nella guerra mondiale e nello sterminio degli ebrei, la cosa sembra importante. E’ possibile che questo sentimento, per quanto peculiare, possa contribuire effettivamente a cambiare le carte in tavola? Forse sì. Innanzitutto perché avanza una ragione morale chiave che si accoppia a quella materiale che ben conosciamo, e che a lungo è stata tenuta nascosta (sembrava quasi che i tedeschi agissero come hanno agito di malavoglia, faute de mieux, per ragioni di forza maggiore). Inoltre, perché, evidentemente, l’asse franco-tedesco perderebbe d’importanza gradualmente – anche se nel breve periodo la tradizionale politica francese alla Jean Monnet potrebbe ancora avere successo (se venisse incontro agli intendimenti del futuro governo tedesco, naturalmente) (Nel senso che, come spesso è avvenuto in passato, l’onore del cambiamento verrebbe intestato alla Francia…). Infine perché un assetto generale europeo costruito attorno alla Germania avrebbe bisogno di venir fuori, prima o poi, au grand jour; e di una rivisitare complessivamente le politiche fin qui seguite.
Conviene allora sospingere la nostra immaginazione possibilista a coprire l’intervallo tra la situazione attuale e quella che desidereremmo; e domandarci: è meglio contrastare quella pretesa tedesca di gestione europea, oppure cercare di affiancarla e di orientarla per il meglio? Nel primo caso riproporremmo la situazione che conosciamo (e forse la peggioreremmo), nel secondo, invece, potremmo forse aprire l’animo alla speranza. Nel senso che, probabilmente, una parte delle soluzioni economiche sostenute dalle grosse coalizioni di Berlino che hanno fatto soffrire tanti europei (noi inclusi) è legata al fatto che, ancor oggi, la direzione europea della Germania non è effettivamente assestata e riconosciuta. Così, per evitare il pericolo (o meglio i vari pericoli), si sono tirate le briglie. Ma, se il problema si decantasse finalmente (dato che non ha vere alternative), la Germania potrebbe venir incoraggiata a cambiare politica e nello stesso tempo a rendere le decisioni più collegiali, soprattutto per chi si comporta in modo decente. Naturalmente, bisognerebbe sgombrare il campo dai fantasmi che hanno protetto fin qui le politiche di austerità, come il pericolo di “far pagare alla Germania ciò che spetta ad altri” oppure quello dell’inflazione galoppante. Niente di tutto questo. E’ necessario, piuttosto che la Commissione (o Il Fondo monetario europeo di cui si vocifera) intervenga rapidamente sul paese che finisce “out of track” e lo aiuti a rimettersi rapidamente in carreggiata, mentre segue nello stesso tempo una forte politica espansiva in modo da favorire la messa in moto delle vastissime capacità e risorse nascoste, disperse e male utilizzate all’interno ed all’esterno dell’Unione.
Evidentemente, se questa grande svolta la si cominciasse davvero a discutere e ad intravvedere come possibile, si aprirebbero davanti a noi due grandi praterie (che poi sono quelle che giustificherebbero e qualificherebbero la nostra spedizione berlinese). Prima: perorare la causa dell’espansione europea come punto di partenza di una grande trasformazione civilizzatrice dei popoli interni ed esterni all’Unione; incoraggiare chi (come Robert Lepenies) si muove già (magari incoerentemente) a favore di tale esigenza; ed intercettare, se è possibile, quelle forze, soprattutto giovanili colte, che potrebbero interessarsene. Seconda prateria: sciorinare, noi che veniamo dal Sud, il vasto ambito di esperienze e di politiche hirschmaniane che possono aiutare tale trasformazione a tutti i livelli (continentale, statale, regionale, locale: perfino berlinese) all’interno e all’esterno dell’Unione.
Che ve ne pare?
Luca