Perchè L’Italia

Perchè L’Italia

Luca Meldolesi  6 maggio 2021

 Perché l’Italia.

In questa nota vorrei dare un’idea del perché il nostro paese potrebbe avere un ruolo di primo piano nella costruzione di un “magnete” d’incivilimento euro-mediterraneo (di colorniana memoria) – come alternativa graduale allo stato di cose presente.

A tal fine è indispensabile sortire dal giardinetto delle specializzazioni mentali di ciascuno di noi[1]. Perché il tema stesso che intendiamo discutere non può essere catturato in un ambito (umanistico, tecnico-scientifico o socio-economico) soltanto. Il Bel Paese (una dizione che allude innanzitutto al primo aspetto) ha avuto una tradizione de ricerca scientifica di primo piano (oggi bistrattata, purtroppo) ed è stato abitato da “italiani brava gente”[2]. Giusto? Giusto (nonostante tutto).

Ma ora? Ora siamo passati da “la dolce vita”, a “la vita è bella”, a “la grande bellezza”, fino a giungere alla “società signorile di massa”. Nell’ambiguità voluta di queste definizioni scorre, a mio avviso, uno “stile di vita” sotterraneamente invidiato persino dai tedeschi[3] che vorrei portare alo scoperto – a patto di saper distinguere naturalmente il grano dalla pula – per potersi destreggiare, com’è necessario fare, tra aspetti positivi (da valorizzare) e negativi (da neutralizzare) della nostra vita collettiva.

Cominciamo dai primi. In un’epoca in cui la crescita esponenziale delle comunicazioni in remoto va di pari passo con un risveglio impressionante di tante parti del mondo, l’Italia (che geograficamente copre appena la metà della California) si trova indubbiamente “rimpicciolita”[4]. Paradossalmente, potrebbe essere un vantaggio se si abbandonasse ogni nostalgia di politica di potenza, da un lato, e di accomodamento in subordine (dipendente e discriminato), dall’altro; e s’imboccasse invece, coraggiosamente, la strada appassionante ed attraente dell’autonomia civilizzatrice.

D’altra parte, i presupposti non mancherebbero – se è vero, com’è vero, che non è tanto il numero (o il valore o lo straordinario giacimento) dei beni culturali storico-artistici (intesi in senso lato) ciò che ci caratterizza, quanto piuttosto la loro fruibilità aperta che si mescola con i comportamenti spontanei e la vita quotidiana delle nostre popolazioni…   Sono le diversità delle esperienze e delle tradizioni, le continuità ininterrotte nei diversi campi del sapere e delle loro applicazioni che danno al nostro paese il suo inconfondibile stampo. E lo valorizzano ancor più nel momento in cui, allontanandoci nel tempo dal lunghissimo dominio delle tante aristocrazie interne ed esterne che hanno comandato l’Italia, le sue “arti” riescono ad autonomizzarsi ulteriormente[5]: vengono usufruite in larga misura in modo indipendente dalle loro origini.

Inoltre, l’attrazione turistica che esse provocano convince le popolazioni a comportamenti più rispettosi e civili (anche sul piano ecologico). L’apparato sanitario italiano messo a dura prova in epoca di pandemia ha retto, nonostante qualche caduta (anche inattesa al Nord) e potrà migliorare in futuro. Lo stesso paesaggio antropizzato nei secoli, invece di inselvatichirsi, potrebbe rifiorire in forme moderne – tramite il lavoro a distanza e la rilocalizzazione di parte dei cittadini a vantaggio dei piccoli centri.

Infine: i processi di democratizzazione combinati ad una necessaria de-verticalizzazione interna al paese possono favorire le regioni meridionali. Possono mettere a coltura giacimenti finora inesplorati (come è accaduto a Matera, ora a Procida, domani a Tiriolo). “L’incanto meridionale” della costiera, dei mandorli in fiore, di Acitrezza o delle Egadi va prendendo via via forme più accoglienti e durature che finiscono per contagiare la disponibilità, l’orgoglio ed il desiderio di riscatto del Mezzogiorno mettendo in moto le cose ed innescando scombussolamenti ed avanzamenti che sparigliano, “spagliano”, debordano verso l’esterno ed assumono un significato generale.

Perché è nell’interazione ( dunque negli andirivieni) tra soggetti di pari dignità che il magnete comincia effettivamente a funzionare. Perché la crescita dell’educazione secondaria ed universitaria ed il suo riorientamento a vantaggio della ricerca e delle nuove tecnologie, se assecondati in modo robusto per colmare almeno una parte delle nostre carenze in proposito, potrebbe mescolare ancor più le carte, senza cancellare le identità plurime di ciascuno di noi (di natura locale, regionale, nazionale, continentale, mediterranea, occidentale).

E’ un “vedere e far vedere” (per dirla con Fernand Braudel) che, per opposizione, pone l’accento sui tanti aspetti della vita italiana che ostacolano il pieno dispiegarsi di quelle straordinarie potenzialità. Valorizza, questo angolo di visuale, le nostre battaglie contro l’assistenzialismo, per lo sviluppo meridionale, la riforma dello stato, il miglioramento delle sue numerose funzioni ecc. E suggerisce infine di aguzzare ulteriormente l’ingegno del nostro possibilismo colorniano in una battaglia di medio periodo che utilizzi a fin di bene tutte le forze che possono essere mese in campo – inclusa naturalmente la sponda euro-mediterranea…

[1] Ciò non significa, naturalmente, che sia possibile abolire tali specializzazioni (e neppure le loro numerosissime sottospecializzazioni). Vuol dire piuttosto che non bisogna farsi bloccare dall’incompetenze (e dall’ignoranze coltivate), incoraggiare le curiosità rispettive, cercare di mettersi nei panni dell’interlocutore che proviene da un’altra parrocchia e così via. Ovvero è necessario allargare la propria ottica in direzioni differenti per poter pensare e scoprire di nuovo. Perché non è proprio il caso che l’artista, lo scienziato naturale e quello sociale si guardino in cagnesco senza intercettarsi reciprocamente (almeno in parte): l’uno dell’altro.

[2] Il cambiamento in proposito è stato enorme. Ma non me la sentirei di abbracciare la tesi di un amico scienziato politico di Gerusalemme (deluso evidentemente dal declino dell’esperienza dei kibbutz) che mi ha gridato: “non bisogna diventare ricchi”. Il benessere ci vuole – direi io; ma cum grano salis!

[3] Cfr. Nava 2020, p. 202.

[4] Non è più un “grande paese” come la consideravano Sam Bowels o Immanuel Wallesrstein solo vent’anni addietro.

[5] E’ un giudizio questo che risente della mia cura recente di Arte e politica di Eugenio Colorni.