02 Ago Retoriche politiche, etica e connessioni di sviluppo nella pratica della valutazione: il contributo di Albert O. Hirschman
di Valeria Aniello
Premessa: la fortuna di avere dei grandi maestri
Nella mia esperienza professionale di valutatore vi sono diversi principi del pensiero hirschmaniano che mi sono ritrovata ad utilizzare, in maniera più o meno consapevole. Una premessa mi sembra doverosa: la mia conoscenza di Hirschman mi deriva dal lavoro lunghissimo e costante di Luca Meldolesi, che si è intersecato con la mia vita a partire dal corso di politica economica seguito nel 1991 e poi con il percorso della mia tesi di laurea, e che ha interpretato lo sviluppo con un suo straordinario progetto di vita: come un invertire i destini sociali e culturali delle persone meritevoli in un contesto senza mezzi per farlo. Anche Liliana Bàculo ha dato un fondamentale contributo alla diffusione del pensiero di Hirschman, e ha sempre costituito un punto di riferimento importante nella realtà napoletana. E’ a casa sua che abbiamo potuto incontrare Albert Hirschman dopo i seminari all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a Napoli o dopo gli incontri all’Università. Liliana ha approfondito sempre le nostre condizioni personali e ci ha sempre aiutato a trovare le strade concrete che ci permettessero di continuare a studiare; il che era all’epoca, per molti di noi, non era affatto scontato. Non potevo dare per scontata questa premessa. Solo oggi ho piena consapevolezza del ruolo di questi miei maestri e delle difficoltà che devono aver incontrato nel perseguire questa strada; essi rappresentano, e questo voglio dirlo con un certo penchant sentimentale, la mia casa di pensiero, il luogo dove posso esprimermi con una rara libertà, dell’imparare continuamente, e, per lungo tempo, hanno rappresentato la mia famiglia intellettuale (e, alle volte, non solo intellettuale). E’ anche il luogo che mi mette sempre soggezione: il mio percorso è stato profondamente segnato dall’incontro con questi intellettuali che avevano come priorità l’interesse pubblico e la crescita del Paese. Non è facile non deludere persone di tale spessore, e passare l’esame di una vita con loro; devo anche dire, non lo è stato e non lo è ancora oggi. Sebbene l’insegnamento hirschmaniano mi provenga da questi maestri, nel mio percorso di vita, mi sono sempre direttamente o indirettamente imbattuta in molti intellettuali che ho incontrato nei miei studi e nella mia carriera e che hanno mostrato apprezzamento nei confronti del suo approccio. Ho scoperto, mano a mano, che Hirschman ha sempre avuto estimatori tra gli economisti, politologi e sociologi. Tra quelli appartenenti alla scuola francese non posso non citare Catherine e Pierre Grémion (Grémion, 2010), Michel Crozier e Erhard Friedberg, miei illuminati insegnanti a Science Politiques Parigi. Su questi ultimi ci sarebbe da aprire un altro capitolo, tanti sono i contributi che essi hanno fornito alla nostra formazione, al di là del fil rouge che oggi ci lega tutti a Albert. Cercherò di strutturare questo mio contributo in due parti: la prima in cui racconto di come mi sono ritrovata, dopo la laurea, a ripercorrere le orme di Albert Hirschman passando per l’Institut d’Etudes Politiques di Parigi, la seconda parte in cui racconto, nel mio appassionato mestiere di valutatore in ambito pubblico nel… profondo Sud Italia, provando a svelare a cosa è dovuto quello che mi viene riconosciuto come un modo “personalissimo” di interpretare il mio lavoro.
1. Hirschman, me e la Francia
1.1 Lo schema uscita-voce nei conflitti socio-professionali del 1996
Hirschman mi ha salvata già nei primi anni della mia carriera di studi, quando, dottoranda a Science Politique, fui improvvisamente “imprigionata” dagli scioperi che bloccarono l’intera Francia nell’autunno 1996. Facevo parte di un gruppo di studenti ai quali fu affidata da Pierre Eric Tixier il compito di studiare attraverso un’indagine sul campo la dinamica dei conflitti socio-professionali alla Gare Montparnasse (Aniello, 1997). I miei colleghi, tutti francesi non erano molto contenti della presenza di una straniera nella loro squadra, pensando agli svantaggi derivanti dalla diversa padronanza della lingua. Gli scioperi, inoltre, mi costringevano a lunghe passeggiate sotto la neve dal diciottesimo arrondissement, quartiere all’estremo nord di Parigi dove abitavo, fino alla Gare Montparnasse, all’estremo sud di Parigi; passeggiate di circa un’ora, un’ora e mezza, con un grande freddo, neve e un grande sconforto. Gli scioperanti avevano bloccato l’intera rete dei trasporti: metropolitane, autobus, treni e aereoporti. Era novembre e si diceva che potevamo arrivare anche a Natale senza veder risolto il conflitto e io temevo di non poter rientrare in Italia. Questa compattezza collettiva nei conflitti socio-professionali mi faceva paura, in Italia mi sembrava che il fenomeno del free riding fosse molto più forte e che gli scioperi si dissolvessero molto più rapidamente. A dispetto delle aspettative, gli cheminots ritennero che io fossi la persona più interessante del mio gruppo di lavoro e mi chiamavano la journaliste italienne, situazione che mi dava un vantaggio enorme perché tutti volevano fossi presente io alle interviste. Questo innalzò molto il mio “potere”, nel senso crozieriano (Crozier e Friedberg, 1978), all’interno della squadra di lavoro. La seconda circostanza che mi fece acquisire interesse agli occhi della piccola comunità intellettuale di cui facevo parte, fu l’applicazione dello schema uscita-voce allo studio dei comportamenti delle diverse categorie di scioperanti (Hirschman, 1970): personale viaggiante (conduttori e controllori), personale sedentario, e dei diversi livelli gerarchici (dirigenti, quadri e operai). Fu da quel momento che mi conquistai il titolo di esperta del pensiero hirschmaniano agli occhi dei miei colleghi e professori; fui consapevole, per la prima volta, all’estero, che ero considerata una seguace del pensiero hirschmaniano, dato che, da quel momento in poi, in varie occasioni mi fu chiesto di esporre il suo pensiero. La mia gratitudine per lo studio dello schema uscita-voce, applicabile alle crisi delle organizzazioni, dei partiti, dello Stato, delle imprese e, in generale, ad ogni contesto organizzato professionale e personale, ivi compresa la famiglia, da quel momento non sarebbe mai cessata.
1.2 La questione etica
Un secondo spunto interessante emerse qualche mese dopo, quando fui presa dalla passione per lo studio dell’etica in economia e che riversai in quello che nel programma dottorale chiamavano il “mémoire optionnel” (Aniello, 1998), una sorta di tesina teorica facoltativa. In questo lavoro parlai del saggio che lo stesso Hirschman aveva scritto sulla moralità e le scienze sociali (Hirschman, 1987), e misi in evidenza come egli avesse avuto molto a cuore l’etica tanto da diventare una sua preoccupazione trasversale; nei fatti, poi, l’ha applicata concretamente molto più di quanto ne abbia parlato nei suoi scritti. Ci sono vari punti in cui questa sua preoccupazione emerge: il primo, con riferimento alla figura del ricercatore-economista e alla sua coscienza morale, il secondo, su un piano più di politica economica e il terzo nella visione dell’attore economico, così come visto nelle scienze economiche tradizionali. Rispetto al ruolo dell’economista-scienziato sociale Hirschman è spesso stato mosso da motivazioni morali; egli stesso ha riconosciuto che Exit, voice and loyalty è stato dettato inconsapevolmente dal senso di colpa derivante dalla sua dipartita dalla Germania sotto il governo nazista; un senso di colpa che gli derivava forse dalla paura di aver indebolito la comunità ebraica con la sua defezione e che porterà all’elaborazione del modello “idraulico”, che anch’esso sarà, a sua volta, superato, come mostra Meldolesi (Meldolesi, 2014) con riferimento all’esperienza della caduta del Muro di Berlino. Nel tratteggiare poi la figura del ricercatore, responsabile della produzione di conoscenza e funzionale all’intervento di politica economica in un contesto, Hirschman da’ la stessa importanza all’oggetto di studio e al soggetto che lo studia, nonchè alla responsabilità di quest’ultimo nell’avvicinarsi alla realtà per conoscerla. Hirschman insiste molto sull’interazione tra teoria e realtà. Egli teme che le soluzioni proposte dagli economisti siano dettate più da una sorta di deformazione professionale e di utilizzo di strumenti concettuali e quadri teorici, che da suggerimenti che effettivamente emanano dalla realtà delle cose. Ma anche Meldolesi ha sottolineato come Hirschman, nell’affermare un approccio interdisciplinare, in realtà affermi l’esigenza etica di avvicinare la conoscenza alle esigenze concrete.
“Da un lato la separazione tra mente e cuore e dall’altro la necessità, per un ricercatore provvisto di un senso etico,di aprirsi la strada tra l’essere economista e il desiderio di costruire una scienza socio-morale (dove le ragioni morali non siano represse o introdotte obtorto collo) indicano in realtà una via d’uscita che si attua nel reperire punti di equilibrio (temporanei) tali da sviluppare il piano scientifico del proprio lavoro e di soddisfare, nello stesso tempo, l’esigenza morale che lo ispira” (Meldolesi, 1994, pag. 79).
Questo tema degli intellettuali slegati dal contesto reale in cui operano, che elaborano teorie lontane dai problemi reali, indebolendo così la loro funzione naturale di traino nell’ambito di processi di sviluppo, è un tema, dal mio punto di vista, purtroppo ancora molto attuale. Rispetto al secondo punto in cui si esplica la morale hirschmaniana, cioè quella di politica economica, Celso Furtado (Furtado, 1960) osservò che Hirschman nella Strategia dello sviluppo economico desidera più comprendere la realtà del sottosviluppo e del ritardo di sviluppo piuttosto che fornire ricette e schemi accademici prestabiliti. Il terzo punto della moralità hirschmaniana si riscontra nella complessificazione dell’homo oeconomicus, attore razionale al centro della teoria economica tradizionale, animato solo da spirito privatistico e personale. Nello scrivere questo mémoire, mi sono spesso imbattuta negli scritti di Amartya Sen. Una delle affermazioni di quest’ultimo che più mi ha colpito è stata a proposito del comportamento reale dell’attore economico, divergente dal bieco comportamento razionale finalizzato al perseguimento del proprio interesse : “il mondo deve pur possedere la sua parte di Amleto, Macbeth , di Re Lear e di Otello”… (Sen, 1985). Qui Sen e Hirschman sono stati in perfetta convergenza, mostrando come tutte le teorie economiche tradizionali si fondassero sull’assunto fragile dell’utilitarismo, non prevedendo comportamenti solidali se non nella sfera dell’irrazionale. Prima di loro l’uomo non poteva essere considerato razionale se non nel perseguimento del suo interesse personale; grazie a loro la razionalità dell’homo economicus ha cominciato a includere le sue passioni, passioni che possono anche non condurlo a massimizzare il suo interesse personale. Nel fare ciò, Hirschman mi è apparso animato dallo spirito “colorniano” (Meldolesi, 1998), spirito che ho ritrovato nel suo pensiero ogni qual volta ci ha proposto di complicare le visioni precostituite dell’uomo razionale ripiegato sui suoi interessi privati e personali a vantaggio delle passioni politiche, degli ideali di libertà e giustizia, dell’impegno pubblico, del cambiamento.
2. Dalla Francia all’Italia: il mestiere di valutatore
2.1 Le connessioni di sviluppo e i grandi progetti
Un altro dei principi chiave del pensiero hirschmaniano, che ribalta la visione corrente di come viene solitamente interpretato il principio comunitario della “concentrazione” della spesa, è quello delle “connessioni di sviluppo”. Il principio della concentrazione, che nasce per contrastare la politica dei finanziamenti a pioggia, è stato spesso rapidamente assimilato alla pratica di “fare pochi grandi progetti”; questi ultimi, com’è noto, sono sempre di lunga e complessa realizzazione e non sempre sono tarati sulle grandi priorità di sviluppo. Sappiamo per esperienza che l’apertura di grandi cantieri, oltre che obiettivo difficile, da sola genera processi di attivazione dell’economia che però, se non accompagnati contemporaneamente da processi di cambiamento civile e culturale, non si traducono necessariamente in azioni di sviluppo; si tratta, inoltre, generalmente di interventi infrastrutturali, inoltre, che hanno alle spalle lobby precise più che preoccupazioni di sviluppo, e che nel passato non hanno presentato le condizioni per una loro sostenibilità gestionale perché intorno ad esse non vi erano, né si sono create, delle iniziative economico-sociali tali da garantirne la sopravvivenza (Hirschman, 1967). Sappiamo invece che, in altri casi, ciò è avvenuto; dato che però nell’ambito dell’utilizzo dei fondi europei abbiamo, paradossalmente, non solo problemi a registrare le cattive prassi ma anche le buone, di queste ultime non abbiamo che poche e labili tracce. Un altro esempio può aiutare a comprendere meglio il discorso delle connessioni di sviluppo. La Commissione Europea ritiene che gli eventi culturali finanziati con i fondi comunitari non abbiano prodotto gli effetti voluti né un significativo valore aggiunto e per tale motivo ne ha vietato il finanziamento nella programmazione 2014-20. In realtà, andando ad esaminare meglio le cose, ciò non è necessariamente vero per tutti gli eventi, spesso è accaduto che alcuni eventi non fossero in sé sbagliati, quanto piuttosto non avessero a monte un quadro strategico che ne avrebbe garantito gli effetti, oppure lo avevano ma è stato completamente disatteso in fase attuativa. Tale quadro strategico avrebbe dovuto, in altri termini, proprio individuare e valorizzare le connessioni di sviluppo. Queste limitazioni così forti, che discendono dall’esperienza passata di progetti finanziati con i fondi europei dallo scarso valore aggiunto, non tengono conto, così, della forza trainante che la cultura, l’economia legata alla presenza del mare, la prevalenza di giovani ed il mix di creatività e risorse complementari presenti nel nostro territorio campano possono determinare. Quello delle connessioni di sviluppo è solo il primo di molti esempi che potrei portare. Nella mia etica di valutatore, mi è spesso stato utile lo schema uscita-voce, come esercizio di “sopravvivenza” professionale. Chi si occupa di valutazione di piani, programmi, progetti e politiche con fondi pubblici nel Sud Italia svolge un ruolo delicato: si tratta, in altri termini, di dover esprimere giudizi finalizzati su attività di programmazione, progettazione, attuazione gestiti da altri soggetti, programmatori ed attuatori appunto. L’esercizio della opzione “voce”, cioè di esprimere giudizi critici, può implicare una penalizzazione successiva ad essere coinvolti nelle attività, con conseguente impoverimento del contributo che in ogni caso la valutazione, operazione che dovrebbe, secondo come io la interpreto, avere a cuore l’interesse pubblico, può certamente dare. L’esercizio dell’opzione “uscita”, invece, prevede un non coinvolgimento nelle attività di valutazione in questione cercando di evitare direttamente i mandati più a rischio, che metterebbero più in luce cattive performance nella gestione dei fondi. Spesso, il valutatore, cerca un giusto mix di coinvolgimento-non coinvolgimento, di uscita-voce, per cercare di continuare a svolgere il suo lavoro senza perdere di indipendenza di giudizio ma anche senza compromettere il suo coinvolgimento successivo.
2.2 La tesi dello slack
Un altro principio hirschmaniano che ho imparato a rispettare nella mia pratica valutativa è quello delle “risorse nascoste disperse o male utilizzate” che possono essere attivate nell’ambito dei progetti di sviluppo (Hirschman, 1958). Mi è capitato, infatti, spesso di osservare che progetti ai quali hanno concorso importanti finanziamenti pubblici non si sono realizzati, oppure si sono realizzati con scarsi risultati o scarsa sostenibilità gestionale, mentre altri progetti senza alcun sostegno finanziario pubblico hanno tracciato traiettorie di sviluppo inusuali ed efficaci. Nel nostro difficile territorio esistono comunque soggetti, attori, persone, operatori economici, istituzioni o parti di esse, imprese o cittadini, intellettuali che riescono ad innescare, anche in rete tra loro, processi di sviluppo, anche senza necessariamente il sostegno pubblico. Potrei citare l’Accademia di Belle Arti di Napoli, che rappresenta un cuore pulsante delle attività culturali rivolte a persone di ogni età, ente che ha raddoppiato il numero dei suoi studenti negli ultimi anni. O ancora il caso del Rione Sanità e delle Catacombe di San Gennaro, in cui si è invertita l’immagine di quartiere “difficile” attraverso l’azione civica del parroco locale che ha realizzato o contribuito a realizzare iniziative di valorizzazione di siti culturali (le Catacombe), un’orchestra giovanile, una scuola per giovani imprenditori e altre numerose ed interconnesse azioni. Ma penso anche all’Istituto Francese di Napoli, che organizza incontri, convegni, momenti di riflessione, spettacoli, cinema e altre manifestazioni culturali mettendo in connessione e gemellando realtà campane con quelle francesi. Oppure, tanto per rimanere in tema musicale, risorsa che anche lo studioso Marco Vitale nel suo volume Viaggio nell’economia della Campania ha considerato centrale (Vitale, 2008), penso al Coro delle Voci Bianche del San Carlo ma anche alle tante associazioni musicali, cori, scuole di musica, che rappresentano un vivaio di crescita personale e musicale, in un contesto di “tecnologizzazione” delle nuove generazioni, che non sempre facilita il loro avvicinamento alle arti. O ancora vi è l’esempio del Parco naturale sommerso della Gaiola, che valorizza un sito di natura storico-archeologico naturale attraverso iniziative di varia natura, destinate anche ai più piccoli. Tra i territori “virtuosi” possiamo, poi, ricordare quello dei Campi Flegrei, dove intorno ad archeologia, gastronomia e cultura sono nate associazioni per la valorizzazione dei siti anche attraverso eventi di qualità; in tale contesto, i Comuni dell’area flegrea cercano di fare fronte comune per la valorizzazione dei loro territori.
2.3 Oltre le intransigenze delle retoriche politiche
Retoriche dell’intransigenza (Hirschman, 1991) è un libro geniale di Albert Hirschman, le cui tesi mi vengono in mente continuamente nel mio lavoro di valutatore di politiche pubbliche. In questo libro, com’è noto, Hirschman descrive le tre tesi prevalenti adottate dalle retoriche politiche reazionarie e la loro controparte nelle corrispondenti tesi politiche progressiste. La prima tesi è quella della futilità, secondo la prospettiva reazionaria, ogni riforma, intervento e cambiamento messo in atto non produrranno gli effetti attesi. La corrispondente tesi progressista afferma, al contrario, ottimisticamente che l’intervento pubblico produrrà sicuramente gli effetti attesi. La seconda tesi è quella della perversità: le riforme e i cambiamenti che si vogliono mettere in atto produrranno effetti contrari a quelli sperati. La terza tesi è quella della messa a repentaglio; secondo questa tesi un determinato intervento produrrà gli effetti sperati ma metterà a repentaglio le conquiste alle quali si è già faticosamente pervenuti. Due delle tesi hirschmaniane ivi esposte con la quale mi devo confrontare continuamente, in maniera diretta o indiretta, sono quelle della futilità e della perversità (per fortuna meno con la tesi della messa a repentaglio). Vi è, infatti, oramai una giustificata sfiducia nell’efficacia dei programmi di intervento pubblico in contesti difficili come il nostro. Io stessa, lavorando da tanti anni in qualità di valutatore, mi sono trovata spesso a combattere il paradigma che per fare sviluppo ci vogliono risorse pubbliche e che, in assenza di intervento pubblico, non possono esserci progetti di sviluppo. La tesi della futilità mi viene in mente quando periodicamente si studiano gli effetti delle politiche di sviluppo e dei programmi e gli indicatori di contesto non risultano migliorati. Da qualche tempo a questa parte gli indicatori statistici peggiorano tutti, tranne rare eccezioni. Eppure dire che i programmi di intervento sono inutili mi sembra talvolta rischioso e deresponsabilizzante. Mi sembra, piuttosto, che le cose vengono pensate bene e realizzate male; oppure vengono direttamente pensate male. Ma bisogna prestare attenzione perché questa tesi apre spazi ad affermazioni pericolose, quali ad esempio che non occorre proprio pensare a politiche di sviluppo dato che queste sono inutili… E il contributo di Hirschman in questo mi aiuta ad avere una visione più equilibrata e sganciata dagli slogan della politica, a favore o contro certi interventi. E anche ad avere il coraggio di ascoltare chi descrive la realtà delle cose in un contesto difficile come il nostro. Ricordo, ad esempio, nel 2007 di aver letto un bollettino delle Assise della Città di Napoli e del Mezzogiorno d’Italia sui danni ambientali in Campania; a quei tempi pochi riconoscevano il problema, prima che avesse la risonanza televisiva degli ultimi anni. Hirschman mi ha insegnato a guardare laddove nessuno guarda, a capire le dinamiche della politica, a capire cosa serve realmente per lo sviluppo, a consolidare la mia etica nel mestiere di valutatore, a diffidare di schemi di sviluppo e ricette semplificatrici per andare a guardare, appunto, come una cosa conduce ad un’altra; mi ha insegnato ad essere un economista diverso da quelli che si misurano soltanto con le analisi costi benefici, a capire l’interdisciplinarietà dei processi di sviluppo, a perseguire l’interesse pubblico anche (e soprattutto) quando questo si scontra con quello privatistico professionale.
2.4 Valutazione, etica e politica
Sui rapporti tra valutazione e politica mi vorrei ora soffermare. Oggi che mi trovo a dirigere un organismo di valutazione so per esperienza diretta quanto possa essere delicato il rapporto tra la politica e la valutazione. L’indipendenza e terzietà di giudizio della valutazione sono temuti dalla politica, non tanto quando questi giudizi vengono espressi nei canali istituzionali, quando invece possono essere utilizzati da terzi per attaccare la politica. Questo è uno dei motivi per cui le attività di valutazione solitamente hanno una scarsa comunicazione esterna. Ed è allo stesso tempo un motivo per i valutatori per temere nel momento in cui esprimono giudizi valutativi delle conseguenze in termini di coinvolgimento nelle attività strategiche. Come ha mostrato lo studio svolto per la preparazione di un Codice etico dei Nuclei di valutazione degli investimenti (cfr. Stame N. e Leone L. 2013), Nuclei di valutazione terzi e indipendenti possono rischiare facilmente di essere messi da parte. Mentre valutatori compiacenti sono più coinvolti nei processi, anche con maggiori implicazioni programmatorie. Lo sforzo che si deve condurre per affermare l’importanza del lavoro della valutazione è riuscire a esprimere giudizi terzi indipendenti ma costruttivi, tempestivamente, per poter consentire cambiamenti in corso d’opera, evitando le strumentalizzazioni di parte, essendo presenti e attenti a specificare bene che il proprio contributo può andare solo in direzione dell’interesse pubblico. Un valutatore che persegua il proprio interesse privato, quando questo si trova in conflitto con l’interesse pubblico, come tanto spesso accade, è un valutatore debole, “border line”, che va rafforzato e ripensato nel suo ruolo, nella sua dinamica organizzativa e nella sua formazione. Spesso, poi, i dilemmi etici derivano dalla dinamica interna agli organismi di valutazione, prima ancora che dalle relazioni dei valutatori con gli stakeholder esterni. Ogni valutatore, infatti, è portatore di una formazione di base diversa, di livelli di esperienza amministrativa e di percezione e lettura dei fenomeni e delle preferenze degli stakeholder estremamente variegati. Hirschman ha molto insistito sul principio dell’interesse pubblico ed è proprio questo principio, a mio avviso, quello che differenzia un valutatore da un consulente privato che effettua semplice attività di assistenza tecnica. Ed è per questo che la presenza di un codice etico di condotta che regolamenti il funzionamento degli organismi di valutazione diventa fondamentale, atteso che i valutatori interni hanno maggiori possibilità di comprensione dei fenomeni, e che i valutatori esterni selezionati con procedure di evidenza pubblica rischiano di diventare facilmente ricattabili in virtù dell’asimmetria informativa e della temporaneità del rapporto, nonché delle modalità di pagamento e dalla tipologia di contratto posta in essere. E’ riconosciuto, infatti, che il problema dell’indipendenza della valutazione non si risolve con il valutatore esterno. Allo stesso tempo, relativamente alle diverse tipologie contrattuali dei valutatori interni alle amministrazioni, nello studio citato (Stame N. e Leone L., 2013, p. 37) è stato rilevato che “nei rari casi in cui dirigenti interni lavorano al 100% nei Nuclei sono più indipendenti” e che per l’indipendenza occorrono tipologie contrattuali con scadenze non troppo brevi (per evitare la ricattabilità del valutatore) né troppo lunghe (per dare eventuali possibilità di rinnovo agli organismi di valutazione).
2.5 Non farsi condizionare da metodologie e tecniche
Un altro punto ancora sul quale vorrei soffermarmi è l’utilizzo di metodi e tecniche per la valutazione, punto su cui ancora una volta Hirschman mi ha aiutato a costruire una posizione professionale sensata. Metodi e tecniche di valutazione sono gli strumenti attraverso i quali il valutatore si propone di prendere delle decisioni ed esprimere un giudizio finalizzato alla presa di decisione; io li ho sempre interpretati come la cassetta degli attrezzi del valutatore, strumenti che consentono di sistematizzare delle informazioni rilevanti per la presa di decisione. Spesso questi strumenti sono preordinati a secondo del tipo di valutazione da effettuare, per cui il valutatore ha pochi margini di manovra nella scelta del metodo o della tecnica; ciò vale per i quadri logici nella valutazione dei programmi comunitari, per l’analisi costi benefici per la valutazione dei grandi progetti e grandi programmi, per le analisi multicriteri nella valutazione di progetti complessi, per l’analisi controfattuale nelle valutazioni ex post e così via, per la sintesi realista nella fase di supporto programmatico settoriale. Tali strumenti e metodi servono a dare rigore e scientificità all’analisi condotta e dovrebbero condurre a una decisione finale mirata e motivata. Ciò che però accade spesso, nella pratica valutativa, che nella proposta più o meno standardizzata di questi elementi, le condizioni di contesto della valutazione, i vincoli e le implicazioni delle decisioni favorevoli o contrarie impongono delle riflessioni sui limiti di questi strumenti. Da un lato questi tendono a rappresentare la strumentazione che giustifica il giudizio del valutatore, quindi consentono al valutatore di sentirsi in parte deresponsabilizzato da eventuali conseguenze; dall’altro, però, non sempre gli esiti a cui conducono sono realmente in direzione dell’interesse pubblico. Nella mia lunga esperienza di valutazione dei progetti ho potuto rimarcare quanto schede progettuali apparentemente perfette nascondessero elementi di criticità fortissimi non messi adeguatamente in luce, oppure quanto proposte formalmente meno strutturate invece potessero contenere i germi del cambiamento necessario. Oppure ancora, caso che purtroppo risulta molto frequente negli ultimi tempi, ho capito che seguire pedissequamente gli esiti dell’applicazione delle tecniche di valutazione può condurre a decisioni negative mentre occorrerebbe, al punto e nel contesto in cui si opera, comunque tentare alcune operazioni perché non farle produrrebbe effetti ancora più negativi. Però in questa percezione il valutatore si sente spesso solo e poco tutelato nel prendere le decisioni, e può tendere ad avere un comportamento “burocratico” difensivo, che consiste nel rinchiudersi nei dati a disposizione e percepire ogni riflessione non in linea come un tentativo di corruzione della sua posizione. Atteggiamento, invece, completamente opposto può essere quello di chi vuole assecondare le scelte politiche e tenta di utilizzare gli strumenti a disposizione a favore di questi ultimi, conducendo valutazioni volutamente superficiali che condurrebbero, se adeguatamente sviluppate, a decisioni completamente negative.
2.6. Strutture organizzative e performance
Un ulteriore punto di connessione che mi fa venire in mente Hirschman insieme a Michel Crozier, grande studioso del fenomeno burocratico e della pubblica amministrazione francese, è l’attenzione per il cambiamento organizzativo, ritenuto fondamentale per la riuscita delle politiche di sviluppo. E’ da qualche anno che cerco di mostrare che le performance dei programmi non sono indipendenti dalle strutture organizzative e dalle persone che sono deputate alla loro attuazione. Questo è stato l’approccio che, nella valutazione ex post del POR Campania 2000-2006, mi ha spinto ad andare ad esaminare il programma in relazione ai cambiamenti organizzativi che aveva introdotto (Nucleo di Valutazione e Verifica Investimenti Pubblici Regione Campania, 2014). Si è trattato di analisi dal profilo innovativo, in quanto, di solito, si misurano le performance dei programmi, in termini di indicatori di realizzazione, di risultato e di impatto, ma non quelle delle organizzazioni responsabili della stesura e dell’attuazione di tali programmi, come se programmi, organizzazioni e persone coinvolte fossero realtà distinte ed indipendenti.
3. Per concludere
Hirschman, e coloro che hanno contribuito alla diffusione del suo pensiero , mi hanno dato degli insegnamenti fondamentali, che mi permettono di affrontare la mia professione con un minimo di serenità anche in momenti in cui ci sarebbe davvero da perdere motivazione ed entusiasmo; di conservare cioè la passione per il mio lavoro anche nei momenti più difficili, pensando proprio al fatto che si tratta di un mestiere che ho scelto perché ha importanti risvolti di interesse pubblico. Mi hanno anche insegnato, inoltre, a mantenere la “barra dritta” in un contesto territoriale che alle volte appare profondamente malsano che rischia di investirci, in un modo o nell’altro, a parteggiare per la verità e la legalità laddove è difficile sostenere questa posizione senza compromettere la propria condizione personale e professionale. Mi hanno fornito una rete positiva di persone che la pensano come me e che possono sostenermi. E, l’aiuto che mi è stato dato da Hirschman e dalle persone che hanno seguito il suo pensiero, ho cercato poi di riprodurlo dando vita, a mia volta, a un rigoroso approccio meritocratico, consapevole che è anche questo a mettere in moto processi di sviluppo, al di là delle teorie. Holderlin affermava “se hai una ragione e un cuore mostrane uno solo dei due, perché se li mostri entrambi non te ne sarà riconosciuto nessuno dei due”. Ecco: mi piace pensare di essere d’accordo con Albert Hirschman nel dire che Holderlin si sbagliava.
Note
1 “I programmi vengono assemblati e gestiti all’interno di organizzazioni. Essi non costituiscono quasi mai l’esclusiva area di attività di personale libero di muoversi e immune da vincoli. Al contrario, quasi tutti i programmi si muovono all’interno di limitazioni rigide imposte dalla legge, dalle tradizioni, dalle procedure, dai regolamenti, dall’abitudine di fare certe cose in un certo modo, ed infine dai vincoli posti da altre organizzazioni presenti nel campo e con le quali ci si deve relazionare. I programmi si muovono all’interno di sistemi di finanziamento, di reclutamento e promozione del personale, di formazione sul posto di lavoro, ecc. Pensare di incrementare l’uso della valutazione senza prendere in considerazione l’ambiente che circonda le organizzazioni, significa ignorare gran parte della storia. Se si vogliono implementare i risultati per migliorare il programma, è possibile che si debbano cambiare le condizioni organizzative. (…) Se si vuole che i cambiamenti vengano mantenuti nel tempo, si deve affrontare il problema del modo in cui le istituzioni lavorano.” (cfr. Weiss 2007, p. 316).
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