Trascrizione webinar

Trascrizione webinar

 

Tra possibilismo e valutazione: Judith Tendler e Albert Hirschman

di Nicoletta Stame,

Collana “A Colorni-Hirschman International Institute” –  Rubbettino 2022

 

Se ne è discusso in un webinar organizzato da A Colorni-Hirschman International Institute, il 6 giugno 2022.

Hanno partecipato Luca Meldolesi, Daniela Caianiello, Gennaro Di Cello, Vincenzo Marino, Nicoletta Stame

 

Nicoletta Stame:  Presentazione

Il webinar dedicato al libro “Tra possibilismo e valutazione: Judith Tendler e Albert Hirschman” si è svolto tra persone che hanno la caratteristica di non essere dei valutatori.  Il  libro, è vero,  è stato pensato per i valutatori, per offrire una solida base teorica alla loro pratica, e alle loro riflessioni, e la loro reazione di solito è quella di chi si sorprende di queste proposte, ma poi se ne avvantaggia.  Invece chi ha una diversa formazione e una solida esperienza pratica  può avere addirittura delle prevenzioni contro la valutazione, o non esservi particolarmente affezionato/a.  Per questo motivo, gli interventi che sono stati pronunciati nel webinar, e che hanno tutti messo in luce come questo bagaglio teorico/pratico può essere utile nelle situazioni più diverse, sono stati particolarmente significativi.

Per me, che mi muovo tra questi due mondi, questo confronto offre una nuova occasione di riflessione.  Perché  io credo veramente che una pratica di sviluppo e di democrazia abbia bisogno di strumenti  per l’empowerment dei cittadini,  per il padroneggiamento da parte dei manager e degli operatori pubblici delle situazioni che si presentano nell’attuazione delle politiche, e per la consapevolezza da parte dei decisori che il cambiamento non avviene per progetto, ma sapendo interpretare le occasioni che si presentano. La valutazione come l’ho  ricostruita, sulle orme di Albert e Judith, mira proprio a questo.

Quando Luca dice che ho fatto bene a non preoccuparmi delle “ubbie” di Albert e Judith (rispetto alla valutazione) si riferisce al fatto  che noi avevamo  in mente due problemi principali, il Mezzogiorno e lo stato, e che nel parlare di uno “stato amico che non si fa imbrogliare” (quindi che non si fa irretire da corruzione e clientelismo),   proponevamo  politiche di sviluppo basate sulla “scoperta delle risorse nascoste e mal utilizzate”, sul loro impiego in iniziative produttive, sull’intervento facilitatore e responsabile dei funzionari pubblici, e su una continua valutazione e messa a punto di queste politiche.  Si trattava quindi di una “valutazione per il cambiamento”  mirata a favorire i processi   positivi che si intravvedevano e in cui eravamo impegnati, a correggere le resistenze e a riformulare di conseguenza le proposte: in una parola, a smuovere le acque di una amministrazione sorda alle voci nuove che  parlavano di sviluppo.

Purtroppo, invece, quella voce non fu ascoltata, e il modo in cui poi la valutazione entrò a far parte del bagaglio delle pratiche della PA è andato in tutt’altra direzione. E’ quello che aveva suggerito a  Vinni  la sua diffidenza verso la valutazione, come adempimento e come disciplina specialistica (dedita a meri problemi metodologici).  Ed è il motivo del mio impegno rivolto alla comunità della valutazione (i valutatori, i committenti, le associazioni di valutazione) per dire che la valutazione poteva essere una cosa diversa. Per fare questo, per tanti anni ho lavorato  sugli approcci che allora definivamo “Hirschman-compatibili”, contemporaneamente  ad un approfondimento delle radici possibiliste che riscontravo nei lavori di Albert e Judith, e che andavo apertamente presentando al dibattito internazionale.

Ma quello che è stato detto qui  è un nuovo segnale.  Tutti, nelle proprie  specifiche collocazioni professionali, e nel proprio modo di pensare,  hanno intravvisto delle possibilità (o percepito delle necessità) per un uso della valutazione che vada al di là delle pratiche abituali, che pure rimangono ben salde:  non bisogna illudersi.

Daniela dice che in fondo ha sempre lavorato come se conoscesse le idee di Judith. Ma Daniela è una funzionaria pubblica molto particolare, una di quelle – direbbe Judith – che smentiscono lo stereotipo del burocrate pigro e inefficiente. Ha inventato dei programmi di sviluppo (Urban Napoli, Cuore) in cui ha reso pratica concreta tante idee sulla emersione, interagendo con l’amministrazione comunale e con gli artigiani. E’ stata, ed è tuttora, dirigente di uffici finanziari dei comuni, in cui lavora a smuovere tutte le incrostazioni burocratiche (e clientelari) che producono l’eterno indebitamento dei comuni.  Fa parte di una rete nazionale di sostegno ai funzionari degli uffici finanziari dei comuni, in cui dialogando con colleghi di tutto il paese sperimenta soluzioni nuove, fuori dalle abitudini consolidate, pur senza violare la norma.  In fondo Daniela è la dimostrazione della utilità delle pratiche possibiliste, compresa la valutazione alla mia maniera, per il suo lavoro per “lo stato amico che non si fa imbrogliare”.

Vinni è un manager pubblico/privato  (è un dirigente della cooperazione) che si trova a disagio sia con le teorie organizzative correnti, che trattano la valutazione come una tecnica, sia con i riti della PA, nazionale ed europea, che la chiedono come adempimento.  Il modo in cui viene così  concepita la valutazione gli sta stretto, sia perché vi vede una specializzazione metodologica, a scapito della decisione strategica, sia perché  lo sente inadeguato a rispondere ai tempi della politica, tanto  come decisione quanto come implementazione dei progetti.  Ma Vinni, che  è anche un frequentatore e conoscitore del pensiero Hirschmaniano-colorniano,  si riconosce nella curvatura che ne ho dato io  occupandomi di valutazione.  E così si spinge a suggerirne  un impiego al di là del  previsto.  Dicendo che la mia ricostruzione può essere utile  per dotare manager e  policy-maker  di un “pensiero valutativo”, basato sulla conoscenza di ”ciò che è accaduto o che potrebbe accadere”, di “ciò che ha funzionato e perché”,  anche Vinni fa rientrare questo modo di lavorare in un miglioramento del funzionamento dello stato.

Gennaro, cui devo una lettura attenta e impegnata del mio testo, che rende anche meglio comprensibili i commenti di tutti gli altri,  muove da una particolare preoccupazione, che gli deriva dalla sua partecipazione attiva al mondo della innovazione sociale, del terzo settore e dell’impresa. Ha negli occhi un déja vu, le critiche di Judith alle agenzie di sviluppo per errori che vede ripetersi oggi, con altri soggetti, per altri  programmi.  Non c’è dubbio che dietro tanto parlare di “valutazioni d’impatto”  e di piani si siano già manifestati vecchi vizi: concentrarsi sull’output misurabile invece che su outcome e impatti (cambiamenti nei comportamenti e nell’ambiente sociale) effettivamente riconosciuti; discettare sui nobili scopi del “capitalismo degli stakeholder” (social responsibility, valore condiviso, sosTenibilità, ecc) senza evitare che divengano operazioni di marketing o di greenwashing;  preoccuparsi più della “mobilitazione del denaro” (i tanti soldi del PNRR) che di cosa se ne può fare per affrontare gli annosi problemi che ci portiamo dietro. E quando definisce la sfida posta da questa situazione come  “tramutare le  azioni programmate in vere e autentiche occasioni di sviluppo sociale e di espansione delle capacità umane”  fa tesoro dei messaggi che coglie  nei nostri autori, nel loro modo di andare alla ricerca del cambiamento.

Sono grata a tutti loro per aver aperto nuovi orizzonti al mio affaccendarmi.

 

Luca Meldolesi: esperienze, responsabilità e limiti

Nel nostro  modo di ragionare, la cosa più difficile – diceva Eugenio Colorni – è la sincerità. Vale a dire: l’onestà con se stessi[1], rappresentata, alla fine (si potrebbe dire tra il serio ed il faceto) dall’esigenza di “dirla tutta” – sosteneva un tempo, con un pizzico d’auto-ironia, un noto leader sindacale.

Ora, guardando e riguardando le prime pagine di questo libro, ho avuto l’impressione che, involontariamente, una certa “reticenza” da parte mia si sia verificata effettivamente nella “Premessa” (ed anche, nell’“Introduzione” un po’ di “non detto” da parte dell’autrice).

Infatti, quando legge il titolo Tra possibilismo e valutazione, Judith Tendler e Albert Hirschman ”, un lettore poco esperto potrebbe supporre che Judith ed Albert, oltre ad essere stati, com’è noto, dei virtuosi del possibilismo, abbiano deciso, ad un certo punto,  di “creare” la valutazione, o comunque di dare un contributo decisivo alla costituzione di tale disciplina.

La storia non è questa. La storia è che Albert Hirschman, giunto al vertice del suo lavoro sull’economia e la politica dello sviluppo (e sull’America latina), ricevette, non a caso, una proposta di ricerca da parte dalla Banca Mondiale. Quest’ultima, infatti, avrebbe desiderato ricevere da un “luminare” ormai acclarato come Hirschman delle raccomandazioni tecniche, specifiche e generali, corrispondenti alle esigenze operative della Banca rispetto a numerosi progetti di sviluppo in attività, sparsi nei diversi continenti.

Conoscendo personalmente Albert, posso immaginare cosa sia successo[2]. Pur nutrendo numerose riserve nei riguardi delle aspettative finali della Banca, Hirschman pensò probabilmente che quella proposta  rappresentava una buona occasione da non lasciarsi sfuggire dalle dita.

Infatti, ragionando dall’interno del suo lavoro, mi pare sensato ipotizzare che, dopo aver “sfornato” un testo famoso di economia dello sviluppo (The Strategy of Economic Development); e poi un libro “fondante” nei riguardi del possibilismo economico-politico (Journeys Toward Progress), l’eventualità, che gli veniva offerta, di utilizzare approfonditamente il metodo comparativo per analizzare un bel gruppo di progetti in piena funzione (che chiamerà in seguito “particelle privilegiate dello sviluppo”), sia apparsa agli occhi di Hirschman una prospettiva attraente[3].

Così Albert si mise all’opera (insieme alla moglie Sarah) tramite documentazioni, viaggi e ricerche sul campo. Ma, a lavoro ormai in pieno sviluppo, il suo “Interim Report” non venne apprezzato dalla Banca. Hirschman, tuttavia, tirò diritto e fece capire ai suoi interlocutori che se intendevano ricavare conclusioni diverse da quelle che egli desiderava trarne, sarebbe stata responsabilità loro e non sua.

Comunque l’accordo che Hirschman aveva approvato inizialmente era che avrebbe compiuto quell’ampio giro d’orizzonte e di ricerca sul campo; e che ne avrebbe scritto di conseguenza. Precauzione saggia, senza dubbio, che tuttavia, come accade sempre nei veri lavori di ricerca, non rappresentava garanzia del risultato desiderato. Infatti, ad un certo punto, Hirschman cominciò ad interrogarsi su cosa ne sarebbe saltato fuori e si dimostrò piuttosto scettico…

E’ questo, se non vado errato, lo scenario del dialogo a distanza tra Albert e Judith che, anche retrospettivamente, appare  abbastanza sorprendente (a chi ha la fortuna di leggere il loro carteggio presso la Mudd Library di Princeton NJ). Perché Judith Tendler, studentessa che contemporaneamente stava lavorando alla sua dissertazione per il conseguimento del PhD, si era ormai imbarcata in un’altra impresa: lo studio dell’energia idroelettrica in Brasile a confronto con quella termica in Argentina – lavoro difficile anche perché, supervisionata da Albert, Judith desiderava includervi l’aspetto sociale, l’aspetto di sviluppo ecc. Non si trattava semplicemente di una questione ingegneristica, dunque. Bisognava mettere a fuoco una problematica più ampia.

L’aspetto comparativo era diventato quindi un elemento portante della ricerca, sia da parte di Albert sia da parte di Judith. Ma Judith, ad un certo punto, perse fiducia e morale e scrisse ad Albert: “non ci riesco, non ce la faccio…” E’ un episodio che esalta l’abilità possibilista di Albert. Perché egli non rispose “no, insisti”. Hirschman scrisse a Judith “anche io mi trovo in mezzo alle difficoltà della comparazione. Anche io faccio fatica a ‘trarmi d’impaccio’ da questa vicenda, ma penso, a questo punto, che sarebbe sbagliato abbandonare il campo”. Judith, rinfrancata, riprese il lavoro e… diventò Judith Tendler.

Come vedete, finora in questa vicenda, non v’è nulla di valutazione. E’ vero, piuttosto, che tale problematica inizia ad emergere in seguito, per quanto riguarda Judith: nel proseguo del suo lavoro. Eppure anche in tali occasioni (proprio come in quelle di Albert con la Banca Mondiale) l’interesse delle istituzioni internazionali con le quali Judith doveva lavorare, si concentravano innanzitutto sulle loro esigenze operative. E di nuovo Judith disbrigò il suo lavoro in modo molto intelligente, con grande abilità, lasciandone però le conclusioni operative completamente in mano a quelle istituzioni.

Tutto questo ha, a mio avviso, un aspetto positivo ma ne ha anche uno negativo: è quanto m’è venuto in mente tornando a leggere questo libro di Nicoletta che intendiamo discutere.  Ha un aspetto positivo perché viene fuori la capacità analitica concreta di Judith Tendler, e in fondo anche la sua capacità formativa, che è stata molto importante anche per noi, perché, come è noto, abbiamo mandato a studiare da Judith all’MIT diversi allievi: Laura Tagle, Tito Bianchi, Alberto Criscuolo (che adesso insieme a Marinella Ariano è alla Banca Mondiale), Marco Magrassi, ecc. Ecco, Judith ne  voleva uno all’anno,  perché diceva “li preparate bene”. Sicuramente è stata una grande occasione: è andata bene anche a loro – gli allievi.

Esiste, tuttavia un “però” di cui dobbiamo occuparci. Esso risiede nel fatto che, siccome Judith non prendeva mai la responsabilità di come andavano a finire le cose, debbo rilevare a distanza di tempo, che anche i nostri allievi istruiti dal suo utilissimo insegnamento hanno appreso a comportarsi così: è una delle difficoltà nelle quali ci siamo trovati. Perché la nostra intenzione è sempre stata (ed è) quella di creare dirigenti nei diversi campi di attività del Sud (e dei Sud): gente che sa prender decisioni…

Seconda questione che mi è sembrata interessante segnalare alla nostra discussione. Se la problematica della valutazione c’entra fino ad un certo punto in questa vicenda, com’è che adesso viene fuori così esplicitamente in questo libro? Debbo testimoniare, a tal proposito che è esistita “una storia nella storia”. Infatti, ad un certo punto della nostra vicenda, Nicoletta ed io ci siamo trovati negli Stati Uniti e Nicoletta si è appassionata alla questione della valutazione che era allora ancora in erba da noi ed ha pensato che sarebbe stato molto importante far capire, e poi utilizzare effettivamente, il lavoro di Albert e di Judith per la valutazione.

Ho due ricordi specifici al riguardo. Judith non fu affatto felice dei titolo con il quale Nicoletta ha pubblicato nel 1992 una prima cernita dei suoi saggi (“Progetti ed effetti. Il mestiere di valutatore”) perché, per l’appunto, ha un sottotitolo che parla di valutazione; mentre Albert, che non si muoveva mai a caso, un pò scherzando e un pò sul serio, un pò approvando e un pò disapprovando, disse una volta a Nicoletta “ecco come nascono le discipline”. Come dire: “All’improvviso avete detto  ‘esiste la valutazione’. D’accordo, ma non fatemi passare per fondatore… Fate vobis: io non c’entro”.

Secondo me Nicoletta ha fatto bene  a non “abboccare” né all’una né all’altro di quelle implicite obiezioni. Nicoletta ed io abbiamo sempre avuto questa sensibilità pubblica, un pò di super-io, un super-ego che ci costringe a lavorare per il bene comune. Nicoletta ha fatto benissimo a capire che l’atteggiamento di Albert e di Judith non era giusto perché si trattava in realtà di  “personalismi”.

Ci troviamo di fronte a persone in carne e ossa, Quali erano le loro ragioni? A mio avviso, avevano una causa sociale, diversa sì, ma anche contrapposta. Infatti, Albert si trovava ormai al vertice della cultura mondiale, e quella “paternità” (chiamiamola così) non la  desiderava, non intendeva riconoscerla. E’ uno dei problema dell’alta cultura. Ad un certo punto quella di Albert era ormai diventata dominante. Perché avrebbe dovuto occuparsi di ciò che stava accadendo ad un livello meno elevato?

Sia chiaro: noi stessi abbiamo usufruito positivamente della collocazione di Hirschman. Se quest’ultima non fosse esistita, non saremmo riusciti a condurre in porto tante cose utili. Ma, riguardo a Judith è vero l’inverso.  Perché la Tendler, che proveniva da una famiglia ebrea socialmente medio-bassa, coltivava tipicamente un desiderio velleitario che proveniva dalla sua collocazione piccolo-borghese: quello di essere riconosciuta come grande teorica. Venir incasellata nella valutazione  le sembrava dunque… una diminutio capitis.

Sono state delle ubbie? A mio avviso sì: di natura personale. E’ questa è la terza cosa che volevo dirvi: Nicoletta ha fatto benissimo a “forzarle” affettuosamente quelle idiosincrasie. Non in maniera esplicita: mettendole soltanto un pò da parte,  e facendo intender loro: “sentite, esistono grandissimi problemi nel funzionamento dello Stato, li conoscete benissimo. Noi italiani soffriamo, in particolare, di tale condizione: incontriamo ogni piè sospinto quelle difficoltà…”. Conclusione inter nos: “immaginiamoci se possiamo essere limitati dalle ubbie rispettive del grande professore e della grande allieva”. Da parte nostra c’è sempre stato l’atteggiamento di dir loro (implicitamente) “tenetevi pure le vostre riserve, ma solo a  casa vostra;  a casa nostra noi abbiamo veramente bisogno che le valutazioni, che la teoria ad esse relativa, che la discussione in proposito abbiano dei punti di riferimento forti”.

Questo è il libro, e serve fondamentalmente a tale scopo. Serve a legare la problematica che è necessaria, che è utile per il funzionamento pubblico ad un punto di vista molto sviluppato, molto coerente, molto importante. Che cosa significa il tipo di rivoluzione intellettuale prodotta da Hirschman e da Tendler?  Perché Nicoletta mette insieme questi due autori?

Albert aveva dietro le spalle  una lunga storia, e quindi mi capiva,  perché sapeva benissimo da dove era partito. Anzi lo stesso Hirschman, in una famosa dichiarazione, aveva detto di essere molto orgoglioso di quello che aveva fatto in gioventù nell’antifascismo in Francia ed in Italia (è un pò una confessione, perché se dai più importanza a quello che hai fatto da giovane, ovviamente gli dai anche valore).

Invece Judith funzionava all’inverso, stava sul “pezzo” molto specifico di cui si stava occupando. Pur essendo amici, e pure avendo valutato reciprocamente, positivamente i nostri lavori rispettivi, era questa la questione. Anche in occasione degli ottant’anni di Albert:  Judith  disse esplicitamente che il nostro sforzo di utilizzo pratico dei risultati culturali di Hirschman e suoi, aveva un grande significato. E se noi siamo qua, quarant’anni dopo, tutto sommato una piccola ribellione interna questa volta c’era stata davvero.

Questo mi porta ad una conclusione molto semplice: tutte le esperienze, anche quelle più straordinarie come quelle di cui stiamo parlando, hanno dei limiti. E quindi bisogna, allo stesso tempo, riconoscere questi limiti, ma anche non farsi ingabbiare, soprattutto se vuoi creare delle nuove esperienze. Quindi direi che sia le nostre esperienze storiche, come quella della ricerca del “nostro Mezzogiorno”, sia quella dell’ Innovation HUB, le dobbiamo vedere così: come esperienze che hanno una loro specificità, una loro logica seria.  Nello stesso tempo quel giardinetto che ci costruiamo intorno ha i suoi meriti, ma ha anche i suoi limiti.

E sono convinto che lo stesso si deve fare singolarmente per ogni singolo soggetto e quindi, anche per Daniela, per Vinni, per Gennaro, a cui adesso darei la parola, e poi  per tutti gli altri..

 

Daniela Caianiello:  tendleriana senza saperlo

La lettura del testo mi ha consentito di imbattermi in Judith Tendler, spesso citata da Nicoletta e Luca, ma della quale devo confessare di non aver mai approfondito la conoscenza, non avendo letto alcun Suo testo.

Sono stanzialmente una persona pragmatica, sempre protesa a sperimentare nuovi stratagemmi per raggiungere obiettivi e quindi il lascito di Judith Tendler sicuramente rappresenta una fonte di idee preziose per capire lo sviluppo. Innanzitutto ho scoperto di aver in qualche modo già metabolizzato, a mia insaputa, taluni Suoi insegnamenti, come l’importanza di lavorare sul campo per una valutazione che lavori per il miglioramento, “for a better world”, che rappresenta poi la base della valutazione possibilista. Judith e Albert mi hanno insegnato “che per capire lo sviluppo si deve guardare dove non si avrebbe mai pensato di guardare prima”.

Ma sicuramente la lezione più importante è stata quella di superare la tentazione di fossilizzarsi nel lamentarsi per tutto quello che non funziona, creandoci inconsciamente un alibi  anche per i nostri fallimenti, ma al contrario concentrarci su ogni successo con “un senso di venerazione”, con il piacere di sorprenderci per quanto di positivo, inaspettatamente, sia accaduto.

Mi ha colpito la modalità di Judith Tendler per formulare le domande, il Suo tipico interrogativo “cosa vi ha sorpreso?”, tradotto poi in domande articolate per capire cosa avesse funzionato bene e cosa no; mi sembra geniale nella sua semplicità. Perché bisogna superare la logica di voler a tutti i costi limitarsi all’analisi del programma, per studiare invece come possa essersi innescato lo sviluppo, anche se ha seguito strade diametralmente   opposte a quanto previsto inizialmente dal programma.

E qui torna anche l’idea di Albert Hirschman che sfida ogni teoria che voglia generalizzare il cambiamento e imbrigliarlo in rigidi modelli precostruiti validi per tutte le latitudini. Poiché riesce a scoprire opportunità di cambiamento ulteriori a quelle che si sono presentate in passato, il suo punto di partenza diventa il “possibilismo” che supera il concetto di “quello che probabilmente potrà accadere”. Si parte dalla capacità di sapersi sorprendere, aprendo lo sguardo sulla molteplicità di modi in cui può avvenire l’auspicato cambiamento, e trovando nuove spinte allo sviluppo. E  bisogna acquisire, come dice Albert Hirschman, “l’abilità di percepire il cambiamento”. Perché il cambiamento può avvenire in modo involontario, ma è importante che sia in ogni caso riconosciuto come tale, in modo che la prossima volta possa diventare intenzionale.

Questa idea è stata sintetizzata in modo efficace dalla Tender con un’espressione hirschmaniana: essere intellettualmente curiosi, capire come, effettivamente “una cosa conduce a un’altra”. E’ una questione di atteggiamento, il ricercatore dovrà essere “animato dalla ‘passione per ciò che è possibile’ piuttosto che affidarsi a ciò che l’analisi fattoriale ha certificato come probabile”:  solo utilizzando questo approccio sarà in grado di capire le situazioni concrete in cui le persone hanno risolto criticità a prima vista insuperabili.

In Judith Tendler ho ritrovato la cultura del dubbio di colorniana memoria, che parte dal presupposto di non dare mai per scontato ciò che in un progetto è considerato un successo o un fallimento. La Tendler vuole scoprire come taluni progetti siano stati capaci “di funzionare bene nonostante la presenza di tante avversità”; il suo approccio è stato definito da Nicoletta Stame “guardare anche altrove”, che significa focalizzare l’attenzione anche sugli aspetti inizialmente non previsti. La Tendler guardava la realtà senza definire prerequisiti per il successo o ostacoli allo sviluppo, semplicemente cercando casi di successo da studiare.

Essenzialmente contro qualsiasi tipo di generalizzazione la Tendler ha messo anche in discussione l’idea di una dicotomia tra il settore pubblico (attanagliato da pigrizia cronica, corruzione ed altri elementi negativi) ed il mondo delle associazioni private (caratterizzato, al contrario, da tutti elementi positivi), spingendo invece a studiare i casi in cui la burocrazia ha funzionato bene stimolando lo sviluppo, perché l’apparato pubblico è costituito da persone e non rappresenta una categoria indistintamente fallimentare.

Judith Tendler rappresenta certamente una professionista democratica eticamente motivata, la sua etica si basa su due capisaldi:

  1. a) Migliorare la vita delle persone aiutandole a esaltare la propria abilità a risolver ei problemi economici e sociali;
  2. b) Ottimizzare il lavoro del settore pubblico al servizio dei cittadini

Nelle sue indicazioni di come ottimizzare il lavoro sul campo, ho scoperto che da circa trent’anni seguo a mia insaputa i suoi preziosi consigli come quello di far parlare le persone, lascandole anche libere di esprimere le proprie sensazioni, coinvolgendo tutti gli attori, non solo quelli principali, perché tutti possono fornire suggerimenti preziosi per migliorare l’attuazione del progetto

Un altro caposaldo della mia formazione universitaria (preziosi insegnamenti Meldolesi –Stame) mi impongono di focalizzare l’attenzione sui casi di successo, di trattarli, come abbiamo visto, con “venerazione”. A differenza dei casi di insuccesso che sono deprimenti, quelli di successo possono spiegare come migliorare le situazioni e dimostrare che i cambiamenti siano effettivamente possibili, ma che le persone devono acquisire la consapevolezza di essere i veri artefici del proprio sviluppo.

Il libro mi ha anche dato l’opportunità di “ripassare” alcune teorie hirschmaniane che mi hanno formata, come ad esempio il concetto della mano che nasconde, che rappresenta la mano benevola che occulta le difficoltà che potremmo incontrare, che se analizzate correttamente avrebbero sicuramente scoraggiato la realizzazione di quella attività, mentre  una volta che le criticità si palesano, si riescono invece ad innescare soluzioni innovative e impreviste per superarle. Come afferma Hirschman “la creatività ci giunge sempre come sorpresa; perciò non possiamo mai contare su di essa e non osiamo crederci finché non la vediamo, perché non ci impegneremmo consapevolmente in compiti il cui successo richiedesse chiaramente la nostra creatività.”

Alla fine la lettura mi ha regalato la sensazione di tornare a casa, ritrovare le mie radici dopo un lungo viaggio, per scoprire però che, in realtà, mi sono allontanata solo di qualche metro…..

 

Vincenzo Marino: pensiero valutativo per i decisori

1.

Ogni lettura è un dialogo tra chi scrive e chi legge. In questo senso le cose che dirò sono il frutto del dialogo che la lettura del testo di Nicoletta Stame ha suscitato in me. Naturalmente, in questo commento, non si possono che dare per acquisiti i contenuti chiave del possibilismo di Albert Hirschman ed Eugenio Colorni che sono oggi ormai pienamente fruibili grazie al lavoro di ricostruzione storica ed intellettuale svolto dall’AC-HII.

Debbo dire che nel corso del tempo, occupandomi a vario titolo di progetti pubblici e politiche pubbliche –  dalle prime esperienze presso il Progetto Occupazione e Sviluppo del Comune di Pesaro, all’esperienza svolta come Tutor per l’emersione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri  alla collaborazione con la Segreteria Tecnica di Sviluppo Italia, fino alle esperienze manageriali in ambito cooperativo – ho sviluppato una certa diffidenza verso la valutazione.

È di tutta evidenza che la valutazione, intesa come processo di ricerca volto a “dare valore” ai risultati ottenuti da un progetto o una politica, è in sé uno strumento utile se concepito per il miglioramento delle politiche. Ho degli obiettivi di miglioramento socio – economico, concepisco politiche e progetti, li implemento, li realizzo e li valuto. Cerco di capire cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato. Cosa è migliorabile. Se i risultati ottenuti sono rispondenti agli obiettivi prefissati o se c’è qualche cosa di diverso…. E così via.

Tuttavia, tre questioni mi hanno progressivamente portato verso una posizione più prudente.

In primo luogo, una problematica tradizionale, legata al modo di funzionare della Pubblica Amministrazione Italiana ed alle procedure adottate dall’Unione Europea, che da un lato hanno reso sempre più la valutazione una sorta di adempimento volto a rispondere al bisogno di dimostrare che gli obiettivi previsti sono stati centrati. Assolto l’adempimento, non mi pare di scorgere un dibattito su come modificare e migliorare gli strumenti, come finalizzarli meglio, come rivederli… c’è invece tanto su quanti indicatori utilizzare, come modificarli, arricchirli etc.etc.

Come conseguenza, la valutazione è divenuta una vera e propria disciplina, con tanto di infrastruttura metodologica, dibattito scientifico, carriere professionali. Ma, mi pare, questa evoluzione ha in parte agevolato una tendenza ­allo sviluppo della valutazione come “fatto tecnico”, privata del suo contenuto morale e di scopo.

A ciò si aggiunge il dubbio derivante dalla crescente asimmetria tra tempo della politica (in vetrina) e tempi della valutazione e dell’apprendimento amministrativo e gestionale cui essa dovrebbe essere finalizzata. L’accelerazione dei processi decisionali, delle tempistiche di implementazione dei progetti, ma soprattutto dei tempi della società liquida e virtuale e della stessa politica (che paiono ormai prescindere anche dal tradizionale ciclo elettorale e si sono inesorabilmente spostati sulla vetrina dei like) possano realmente favorire quella ponderatezza, serietà professionale e profondità che la valutazione richiede.

Con questo bagaglio di perplessità, che ho qui elencato sinteticamente, mi sono avvicinato alla lettura del libro della Stame. E quindi la prima domanda che mi sono fatto è stata: C’era davvero bisogno di questo libro? Al termine della lettura, debbo dire di si. Intanto perché si tratta di un libro ben scritto e strutturato che risponde pienamente all’obiettivo di rendere comprensibile al lettore interessato che esiste un modo diverso di concepire la valutazione e la sua utilità strategica.

E che, nell’ampio ventaglio di disposizioni teoriche e disciplinari della valutazione, esiste una via, forse più complessa, diversa e possibile al modo in cui concepiamo la valutazione e la sua utilità ai fini del cambiamento socio – economico in situazioni complesse; e al modo in cui possiamo renderla utile per il miglioramento del funzionamento dello Stato e degli strumenti che utilizza (programmi, progetti, incentivi) per l’improvement delle condizioni di vita delle persone.

Ma soprattutto perché questo “aiuto ai naviganti” possiede la qualità di orientare il lettore nella comprensione della valenza a fini valutativi dell’approccio possibilista oltre che consentire un suo “inquadramento” dialogante anche con il dibattito interno alla disciplina.

Mi è venuto da pensare poi, Nicoletta ha costruito lei stessa un percorso possibilista, di riforma della disciplina dall’interno della disciplina. Nicoletta è infatti una grande studiosa di valutazione e una grande valutatrice. Ha promosso e presieduto l’Associazione Italiana di Valutazione ed è stata Presidente della European Evaluation Society. È stimata a livello internazionale e mantiene connessioni e contatti con i più grandi esperti di valutazione a livello mondiale.

Il che vuol dire che si occupa di valutazione “a ragion veduta”. Non è percepita dalla comunità scientifica come un “corpo estraneo”, anzi ne è parte integrante. Ciononostante, ha mantenuto un proprio punto di vista autonomo e creativo anche grazie alla sua frequentazione attiva con il punto di vista possibilista. Ed è quindi all’interno di uno sforzo continuo di approfondimento della disciplina che va inquadrato il suo lavoro dialogante ma determinato di continua apertura a modi diversi di valutare, alla valutazione partecipata, democratica, possibilista.

Il dialogo con Albert Hirschman e Judith Tendler consente di capire bene in cosa consista questa “valutazione possibilista”, quali siano i suoi fondamenti, quale attualità essa possiede.

È una valutazione che si occupa di “dare valore” ai ritrovamenti della ricerca valutativa. Effettuata a valle di un programma o di un progetto, si interroga sul cosa ha funzionato e perché. Sul “cosa ha funzionato”, propone un punto di vista basato sulla centralità degli “effetti”. Di quelli intenzionali (perché previsti in forma di obiettivi dal programma / progetto) e di quelli inintenzionali, imprevisti che pure hanno modificato i comportamenti dei beneficiari a causa di determinate condizioni di contesto, del tipo di tecnologia utilizzata dal programma, delle caratteristiche degli incentivi, della stessa risposta/partecipazione comportamentale dei beneficiari. Ci si interroga quindi su ciò che è effettivamente accaduto…

Il focus sugli effetti comporta una conseguenza metodologica importante sul come indagarli. Analisi quantitative e dati sono certo importanti. Così come le verifiche di raggiungimento degli output e degli outcome. Ma la valutazione possibilista restituisce dignità agli studi di caso e alle analisi comparative. All’osservazione di campo e alle interviste ad attori dei progetti e ai beneficiari. All’analisi qualitativa svolta in chiave di apprendimento insomma…

Da questo punto di vista, il testo restituisce un po’ di fiducia nelle possibilità di miglioramento della amministrazione, delle politiche, dei progetti se si desidera davvero perseguirli.

E, sotto questo profilo, ritengo che il libro sia di una particolare utilità proprio per policy makers e decisori. Mi verrebbe quasi da dire, che è ad essi che si rivolge quando, richiamando gli insegnamenti di Albert e Judith, evidenzia il potenziale generativo di un “pensiero valutativo”, di un atteggiamento volto alla scoperta e alla comprensione di ciò che è accaduto, di ciò che non è accaduto, di ciò che potrebbe ancora accadere.

Sarà anche utile per chi fa il “Mestiere del Valutatore”, ma io penso che questo libro è più utile ancora a chi prende decisioni e deve implementarle.

 

Gennaro di Cello: una mappa preziosa per affrontare le complesse e inedite sfide del presente e del futuro

Tra Possibilismo e Valutazione. Judith Tendler e Albert Hirschman è un libro denso, ricco e polimorfo in grado di restituire il pensiero, gli approcci e le pratiche di lavoro di due grandi maestri del Novecento sui temi della valutazione.

È utile precisare che gli argomenti trattati nel lavoro di ricerca riguardano la valutazione di programmi di cambiamento in una dimensione macro ovvero programmi pensati, ideati e realizzati nel contesto delle politiche pubbliche, in grado di produrre impatti positivi creando giustizia, equità, democrazia. Per questa ragione il volume rappresenta uno strumento importante per consulenti ed esperti di valutazione che vogliano approfondire il contributo diretto e indiretto di Albert Hirschman e Judith Tendler in materia di valutazione dello sviluppo. Ma il libro è, altresì, uno strumento essenziale per quanti intendano confrontarsi con il pensiero e la vasta esperienza di Nicoletta Stame che della valutazione è figura esperta tra le più autorevoli, avendo anche ricoperto il ruolo di presidente dell’Associazione Italiana di Valutazione e della European Evaluation Society. L’autrice di Possibilismo e Valutazione, infatti, non si limita semplicemente a dare voce, a riportare alla luce e a far emergere documenti, scritti e riflessioni del passato, riferiti ad Albert Hirschman e Judith Tendler – attività già di per sé encomiabile e impagabile – ma procede per assimilazioni e interpretazioni, creando rimandi e connessioni tra diversi approcci e insegnamenti, restituendo una visione dinamica, multidimensionale, aperta ed etica della valutazione. Quest’ultima, attraverso un articolato viaggio intellettuale, condotto in cinquant’anni di studi ed esperienze, viene rappresentata come una pratica necessaria per comprendere i risultati delle azioni programmate con lo scopo di capire come farne reali occasioni di capacitazione e di sviluppo sociale.

Nicoletta Stame con profonda maturità e sguardo prospettico, riesce a restituire tutta la complessità delle dinamiche di cambiamento e, quindi, degli approcci alla valutazione, mettendo in guardia dai rischi sempre presenti di restare irretiti – anche involontariamente – in approcci mainstream. E lo fa utilizzando un linguaggio, una chiarezza e una capacità di sintesi che è la cifra stilistica propria di chi dispone di un armamentario sapienziale, di un bagaglio di saperi e di una grande sensibilità.

Mi soffermerò, brevemente, su alcuni contenuti e riflessioni che ho trovato particolarmente stimolanti e fecondi, che meritano non solo di essere analiticamente approfonditi ma anche di essere declinati nella pratica quotidiana, facendoli diventare, responsabilmente, tratti costitutivi del proprio lavoro e del proprio modo di agire e pensare.

Probabilismo e Possibilismo

Scopo della valutazione, sostiene Nicoletta Stame, è quello di aiutare a comprendere quali iniziative funzionano meglio (dove e perché) nell’ottenere i cambiamenti desiderati. Nella pratica, tuttavia, le cose si sono svolte (e si svolgono) in maniera non lineare, diversamente dal previsto, e in modo complicato.

La Stame ci ricorda – opportunamente – la distinzione tracciata da Hirschman tra progetti interpretati come blueprint (un documento tecnico che fornisce i dettagli “dietro le quinte” della visione di programma) e progetti come particelle privilegiate per comprendere come avviene lo sviluppo (il cui processo di implementazione può spesso significare un lungo viaggio di scoperta nei più vari campi, dalla tecnologia alla politica); ci ricorda anche la distinzione tra cambiamento volontaristico e cambiamento come effetto di conseguenze inintenzionali. L’autrice suggerisce che il modo in cui si pone la domanda in relazione ai programmi di sviluppo e ai suoi effetti non è neutrale ma presuppone una certa visione del mondo. La domanda «il programma ha funzionato?» presuppone, infatti, un modo di pensare chiuso, un approccio predeterminato, causalistico, di tipo scientista, mentre la domanda «come avviene il cambiamento?» rappresenta una domanda aperta che lascia spazio a molte interpretazioni e che sfida ogni idea di pensiero lineare e regolare.

Per Hirschman il cambiamento si presenta sempre con forme diverse, ogni progetto è una cosa a sé, rappresenta «una costellazione unica di esperienze e di conseguenze, d’effetti diretti ed indiretti». Il possibilismo suggerisce di dubitare di precondizioni e regolarità, invita a riflettere su tutto ciò che succede intorno a un progetto: conseguenze attese e inattese, complessità e incertezze, variabili di contesto non previste, pluralità degli effetti economici, sociali, politici. Secondo questo punto di vista la ricerca di modelli e di regolarità può contenere implicitamente (involontariamente) degli ostacoli alla percezione del cambiamento.

Qui sta la differenza tra “probabilismo” e “possibilismo” e la convinzione – che il pensiero tradizionale considera blasfema – che il possibile è più ampio del probabile, perché intravvede delle opportunità di cambiamento ulteriori rispetto a quelle che si sono presentate in passato e che molto difficilmente si riprodurranno – condizioni su cui, invece, si è spesso costruita una teoria: la Teoria del Cambiamento (Stame 2022, p. 21).

Il ragionamento dominante, scientista, alla base della ricostruzione delle Teorie del Cambiamento è di tipo probabilistico, in quanto disegna e concepisce una spiegazione causale e un cambiamento previsto. Vari autori, scrive la Stame, sostengono, invece, che «condurre una valutazione è un esercizio di conoscenza del cambiamento», anche se di norma sono in pochi a chiedersi come avviene il cambiamento, con quali modalità e tempistiche. Kim Forss, ricorda la Stame, collega addirittura l’analisi del cambiamento agli aspetti della serendipità e dell’incertezza, esattamente l’opposto di un percorso predefinito e pre-costituito.

Secondo Nicoletta Stame questo modo di vedere le cose focalizza l’attenzione «maggiormente sul processo e non sul prodotto, sull’incertezza invece che sui risultati, sullo sviluppo iterativo delle ipotesi invece che sulle teorie statiche, sull’apprendimento piuttosto che sull’accountability».

Il possibilismo di Albert e Judith può portare un importante ulteriore contributo, non solo nel partire dal dubbio e dalla sorpresa, aprendo lo sguardo sulla molteplicità di modi in cui un cambiamento desiderato può avvenire, ma anche nell’aiutare a trovare forme nuove, vie d’uscita non ancora sperimentate, che un’osservazione della situazione in loco consente di individuare e aiutare a conseguire (Stame 2022, p. 23).

La tematica del cambiamento inatteso rimanda anche a un rinnovato interesse per la teoria della “mano che nasconde”: «la mano provvidenziale che benevolmente nasconde le difficoltà che potrebbero sorgere in un progetto». In tal modo, evidenzia la Stame, si intraprendono azioni che altrimenti non si sarebbero neppure iniziate, mentre la creatività degli attori in gioco consente di individuare soluzioni innovative e di affrontare difficoltà insorte, proprio grazie alla capacità di sfruttare le occasioni precedentemente non considerate, sia da parte degli attori, sia da parte dei consulenti e dei teorici.

Secondo Hirschman «la creatività ci giunge sempre come sorpresa: perciò non possiamo mai contare su di essa o non osiamo crederci finché non la vediamo. In altre parole, non ci impegneremmo consapevolmente in compiti il cui successo richiedesse chiaramente la nostra creatività>> (A.O. Hirschman, Progetti di Sviluppo, in Stame 2022, p. 27).

Emerge il valore del paradosso – caro ad Hirschman – quale essenza del processo del cambiamento, «nel senso che in ogni processo vi sono ingredienti ambivalenti e posseggono un qualche potenziale di progresso e di promozione della crescita».

Nicoletta Stame invita a prestare vigile attenzione alle benedizioni mascherate ed essere consapevoli che dalle debolezze si possono ricavare punti di forza. Ci ricorda che l’insegnamento di Albert Hirschman, ripreso costantemente da Judith Tendler, è proprio quello di «mostrare come una società possa cominciare a muoversi in avanti quale essa è, malgrado ciò che è e in forza di ciò che è».

Si tratta di un enorme patrimonio di idee e di esperienze da non disperdere in un’epoca nella quale le società e le comunità locali devono imparare ad affrontare sfide nuove, complesse e impreviste.

Tendenza a ragionare per output, relegando in secondo piano outcome e impatti e sue conseguenze

Nicoletta Stame riprende una osservazione sorprendente di Judith Tendler del 1975. Si tratta di una considerazione critica relativa al modo in cui le Agenzie e le Organizzazioni internazionali prendono le decisioni nella gestione dei programmi di erogazione degli aiuti: «in un mondo in cui è ben nota la scarsità delle risorse destinate agli aiuti, prevalgono nelle Agenzie comportamenti adeguati a una disponibilità illimitata dei fondi di assistenza allo sviluppo».Ciò dipende dalla logica decisionale riguardante l’output, che viene definito come un “tot di risorse da trasferire in un dato lasso di tempo”. La Tendler osserva una tendenza propria delle Agenzie di Aiuti a relegare in secondo piano outcome e impatti, per via della difficoltà di prevederli e di valutarli esattamente, e a concentrarsi quasi esclusivamente sull’output, da rilevare tramite indicatori di natura quantitativa.

Secondo Nicoletta Stame, questa preferenza per tutto ciò che sia quantitativamente valutabile (misurabile) ha permesso di accumulare molte conoscenze in materia di aiuti allo sviluppo, ma ha dato luogo a una serie di conseguenze negative, perché i mezzi diventano fini, ci si concentra sull’output, si perde la possibilità di scoprire occasioni di cambiamento non previste, che pure si presentano, potendo trovare soluzioni a problemi ricorrenti.

In un’altra fase della storia avremmo fatto fatica, di primo acchito, a capire come una impostazione eccessivamente sbilanciata sugli output possa produrre conseguenze negative, l’opposto di ciò che si prefigge. Tuttavia, in un momento storico in cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, approvato dall’Italia nel 2021, si propone in tempi rapidi di rilanciare l’economia dopo la pandemia COVID-19, gli effetti della impostazione sopraenunciata possono risultare di immediata percezione. Ci troviamo in un momento storico nel quale ingenti risorse del Recovery Found sono destinate all’Italia (191,5 mld dei complessivi 750 mld di euro del pacchetto Next Generation EU) e devono essere spese in un lasso temporale molto breve. La grande preoccupazione degli apparati decisionali è, quindi, rappresentata dalla capacità di movimentare denaro e non certo di entrare nel merito dei programmi e dei suoi effetti qualitativi. Tutto è estremamente concentrato sulla capacità di spesa, in tempi stretti – come mai prima d’ora – confidando in una capacità intrinseca degli interventi di produrre effetti positivi. Ecco un esempio estremamente calzante in cui lo strumento (dispositivo organizzativo) diventa fine (trasferire le ingenti risorse previste dal PNRR). Con la Stame possiamo affermare che se Judith Tendler fosse qui con noi, obietterebbe che così facendo vengono prodotti effetti negativi, a cui contribuiscono tutti gli attori interessati («l’ambiente del compito>>, lo chiama), proprio in quanto si attengono scrupolosamente ad una logica decisionale e non perché non la stanno osservando. Le performance dei funzionari delle agenzie vengono misurate in base alla capacità di movimentare denaro, senza entrare troppo nel merito dei progetti. L’efficienza è misurata in termini quantitativi e non qualitativi.

Con la Tendler possiamo affermare che le Agenzie e, in questo caso, i Governi concentrandosi solo sull’output organizzativo rischiano di aggravare le cose, di non accorgersi non solo delle opportunità e delle soluzioni che via via si presentano ma anche degli effetti negativi prodotti dai programmi di spesa.

Scienza sociale interpretativa

Nel capitolo “Scienza sociale interpretativa” Nicoletta Stame dà conto della svolta interpretativa, avvenuta a metà degli anni ’70 del secolo scorso, dell’abbandono della visione positivista che pretende di legare le scienze sociali al modello delle scienze naturali che tanto successo ha avuto negli approcci mainstream alla valutazione. Tale svolta è rappresentata, storicamente, nell’antologia Interpretative Social Science. A second Look (California, 1979) in cui Paul Rabinow e William M. Sullivan offrono saggi importanti sugli approcci interpretativi allo studio della società umana. Il volume presenta, tra gli altri, saggi di Gadamer, Habermas, Foucault. Si tratta dell’unico volume nel quale i testi di Albert Hirschman e Clifford Geertz appaiono fianco a fianco, insieme a quelli di altri autori importanti.

Quella che viene chiamata svolta interpretativa è una reazione alle scienze sociali tradizionali e ai principi positivistici di avalutatività, oggettività, distacco del ricercatore, frutto del bisogno di aggiungere nuovi concetti e strumenti intellettuali alle competenze degli scienziati sociali e, nello stesso tempo, di allargare le loro prospettive invece di reiterare vecchie dispute tra scienze naturali e scienze umane (Stame 2022, p. 58).

In un documento supervisionato da Hirschman e Geertz, intitolato Our idea of a social science (William Sewell Jr. e Quentin Skinner, 1979) si critica l’ultra-specializzazione delle scienze umane, l’ingiustificato scientismo, l’irragionevole priorità data alle esternalità del comportamento, alle sue cause e alle regolarità, senza «offrire in cambio una qualche capacità di trovare soluzioni soddisfacenti ai pressanti problemi sociali ed economici del giorno». Il documento afferma, inoltre, che «una piena comprensione della maggior parte dei fenomeni sociali richiede che oltre a studiarne la causa, almeno altrettanta attenzione sia data ai sistemi simbolici linguistici, convenzionali, rituali nei cui termini gli agenti e i gruppi che studiamo nelle scienze sociali descrivono, teorizzano e danno valore alla loro condotta>>.Si tratta di un approccio radicalmente nuovo, capace di saper guardare la realtà e i fenomeni sociali, andando oltre le apparenze. Come Geertz dirà in seguito, lo scopo era quello «non solo di misurare, correlare, sistematizzare e stabilire, ma anche di formulare, chiarire, valutare, capire». E per fare questo si proponeva non una scuola in contrasto ad altre scuole, un approccio metodologico in contrasto con altre metodologie, ma un dialogo tra discipline (il trespassing hirschmaniano ovvero la capacità di oltrepassare i confini disciplinari e di combinare i contributi di diverse tradizioni disciplinari, senza i quali la spiegazione storico-empirica resta monca).

Hirschman aveva una visione integrata della scienza sociale. Non a caso – ci ricorda la Stame – Albert Hirschman critica gli atteggiamenti degli scienziati sociali che «sono contenti quando riescono a mettere le mani su un paradigma univoco o su un’unica linea di causazione» e i cui pronostici sono spesso meno accurati di quelli del «politico esperto, la cui intuizione prenderà generalmente in considerazione una varietà di forze». Scrive Hirschman: «colui che ha di mira il mutamento sociale su grande scala dev’essere posseduto, per dirla con Kierkegaard, dalla passione per ciò che è possibile, piuttosto che affidarsi a ciò che l’analisi fattoriale ha certificato come probabile».

Deep Play ovvero Il gioco profondo è il titolo di un saggio di Clifford Geertz, un classico dell’antropologia simbolica che descrive il combattimento di galli nell’isola di Bali. A uno sguardo superficiale l’oggetto dello studio sembrerebbe poca cosa: una specie di “sport” tradizionale, semilegale, ma molto diffuso nell’isola. Un occhio più attento può vederlo come un passatempo con forti componenti rituali. Geertz, invece, spingendo a fondo lo sguardo, scopre non solo la grande ricchezza di pratiche e saperi che costituisce il combattimento di galli e il variegato mondo di scommesse, ma va molto oltre, risalendo ad un livello metaforico che consente di rendere comprensibile l’esperienza quotidiana dei balinesi e del loro microcosmo. Il saggio di Geertz, citato e riportato opportunamente da Nicoletta Stame, rappresenta un efficace interpretazione di uno specifico fenomeno culturale, dimostrando come la scienza sociale interpretativa costituisce un’impresa molto vitale e convincente. La bellezza e profondità del saggio di Geertz, un vero capolavoro interpretativo, è illuminante in quanto esemplifica cosa significa trattare la lotta dei galli come testo da interpretare, svelando le gerarchie non ovvie che pervadono l’intera società balinese, e non come un rito o un passatempo da descrivere, come avrebbero fatto altri antropologi. Le società e le culture di un popolo sono un insieme di testi da interpretare, gli scienziati sociali devono solo imparare ad avervi accesso.

Contrariamente a ciò che si può pensare, e nonostante i reiterati tentativi di numerosi scienziati sociali di imitare il modello delle scienze naturali, questa antologia [Interpretative Social Science. A second Look] non ha perso il suo charme […] La sua prospettiva è ancora in grado di offrire un forte antidoto a quei rinnovati “ostacoli alla comprensione” di cui si discorreva… (Stame 2022, p. 67).

Scienza sociale interpretativa e moralità

Interpretative Social Science era l’appello ad un approccio interpretativo alla realtà che includeva la comprensione del significato dell’azione sociale prima di cercare di spiegarne le cause, il rimanere aperti a nuove scoperte e un senso di impegno morale da parte del ricercatore che fa parte della ricerca. Quarant’anni fa, scrive Nicoletta Stame, sotto l’influenza intellettuale di Clifford Geertz e Albert Hirschman, un gruppo di autori hanno apertamente osato sfidare la separazione tra scienza sociale e morale. Si tratta, scrive la Stame, di «un episodio di creatività responsabile che vale la pena di rivisitare, anche perché illumina parecchio i nostri problemi», soprattutto «in un momento in cui le questioni etiche sono sempre più rilevanti nella vita delle nostre società (crescenti disuguaglianze a livello globale, dissesto ecologico, rinnovate politiche aggressive, terrorismo, guerre locali)».

La scienza sociale interpretativa criticava i principi di “avalutatività” (Weber), “oggettività” e “distacco” del ricercatore, che invece erano considerati veri caposaldi della scienza sociale mainstream. Essa prevedeva, piuttosto, da parte del ricercatore, un impegno morale che fosse parte della ricerca stessa. Nelle parole di Geertz: «Come “interpretativi”, auto-dichiarati auto-capiti, eravamo interessati ad un lavoro che andasse oltre gli stretti confini di un rigido e schematizzato “metodo scientifico”, e che connettesse preoccupazioni morali, politiche e spirituali» (Stame 2022, p. 69).

Si tratta – afferma la Stame – di un ribaltamento sorprendente, poiché l’epistemologia positivista escludeva la morale dalla scienza sociale in base ad alcuni presupposti: l’oggetto di ricerca definito come “fatti, non valori”; lo scopo della ricerca come “descrittivo, non normativo”; l’atteggiamento del ricercatore come “distaccato, non coinvolto”. Le considerazioni etiche – ci ricorda ancora la Stame – facevano parte delle humanities, non delle scienze. Geertz e gli altri scienziati sociali, invece, contestavano queste dicotomie, collegando le varie sfere della vita e della ricerca che la scienza sociale positiva e la filosofia ermeneutica, ciascuna per le sue ragioni, voleva tenere separate. I nostri autori non si sentivano a proprio agio nella guerra dei paradigmi e neanche nelle tensioni dicotomiche.

La Stame passa quindi in rassegna i nostri autori, riportando passi emblematici, belli e coinvolgenti, davvero illuminanti per comprendere quanto la dimensione morale sia una caratteristica costitutiva della scienza sociale.

Per Geertz «la ricerca è un’esperienza morale». Si tratta di un’affermazione chiave, che rompe con l’onnipresenza della posizione “amorale” in tutte le discipline sociali. Sempre Geertz afferma che «i metodi e le teorie della scienza sociale non sono prodotte da computer, ma da uomini e donne che operano nello stesso mondo sociale a cui i metodi si applicano e di cui le [stesse] teorie sociali fanno parte». Ancora Geertz: «nel lavoro sul campo, l’antropologo deve imparare a vivere e a pensare nel medesimo tempo».

Secondo Robert Bellah «è abbastanza arbitrario decidere cosa è cognitivo e cosa è normativo, quando siamo scientifici e quando etici. In realtà l’acume intellettuale e la maturità etica vanno mano nella mano. Saggezza è la parola tradizionale che le incorpora entrambe».

Il contributo di Albert Hirschman su questo tema, afferma Nicoletta Stame, è molto importante. In un solo saggio, La moralità e la scienza sociale: una tensione durevole, egli ammette, inizialmente, che la morale può esistere in una maniera particolarmente efficace “sotto mentite spoglie” ovvero “inconsapevolmente”, per poi far evolvere il ragionamento in modo paradossale: «[solo se] gli scienziati sociali sono moralmente vivi e disposti a lasciarsi influenzare da considerazioni di ordine morale – allora, consapevolmente o meno, produrranno opere moralmente rilevanti». Questa ammissione lo conduce infine ad avanzare, secondo la Stame, “un pensiero più ambizioso e probabilmente utopistico”:

[…] un tipo di scienza sociale ben diverso da quella che molti di noi hanno praticato: una scienza socio-morale in cui le ragioni di ordine morale non sono represse né messe in disparte, ma sistematicamente mescolate con l’argomentazione analitica, senza sensi di colpa per qualunque difetto di integrazione […] e in cui le ragioni morali non devono essere introdotte di nascosto, né rivelate inconsapevolmente, ma sono dispiegate in modo aperto e disarmante. Sarebbe questo, in parte, il mio sogno di una scienza sociale per i nostri nipoti (A.O. Hirschman, La moralità e le scienze sociali: una tensione durevole, in Stame 2022, p. 86).

“Siamo”, per caso, “di fronte ad un’autosovversione?”, chiosa Nicoletta Stame, ringraziando Luca Meldolesi per averle fatto notare un approccio e una pratica tipici di Hirschman, sempre aduso e disponibile ad avviare una riflessione critica sulle proprie idee e sui propri scritti.

Dubbio, sorpresa, etica: lezioni dal lavoro di Judith Tendler

«Judith Tendler», fa notare Nicoletta Stame, «è poco conosciuta nella comunità internazionale dei valutatori, anche se la sua attività pratica e le sue teorie sullo sviluppo hanno anticipato molte idee che sono oggi al centro del dibattito». La Stame si è occupata di curare una antologia degli scritti di Judith Tendler (1992) e una selezione di scritti (2018) a seguito della pubblicazione online dei suoi scritti (libri, articoli, ricerche, rapporti di valutazione).

Tale procedimento mi ha permesso, a sua volta (da cosa nasce cosa), di meglio comprendere i contributi della Tendler come valutatrice e come insegnante, e mi ha spinto a tentare di mostrarne la persistente vitalità e la capacità, che essi possiedono, di offrire spunti di riflessione sui problemi attuali – quelli che oggi preoccupano maggiormente i valutatori (Stame 2022, p. 137).

La ricerca della Tendler, scrive la Stame, è imperniata sulla principale domanda valutativa: «i progetti hanno avuto successo?» o «che cosa funziona?». «Ma il suo ricercare cosa», scrive la Stame, «proveniva dal suo modo di intendere lo sviluppo, e non da una semplice tecnica di valutazione».

L’approccio della Tendler era basato sul dubbio (non dare per scontato ciò che in un progetto era considerato un successo, o un fallimento) e sull’evidenza (raccolta nel lavoro sul campo, “osservando” i progetti). Concentrava l’attenzione su ciò che era inatteso – «cosa ti ha sorpreso?» domandava sempre. Questo significava anche che era interessata a casi “non rappresentativi”, che potevano esser positivi, ma anche negativi (Stame 2022, p. 138).

La Tendler, ci rivela Stame, era ossessionata dallo scoprire come certi progetti avevano lavorato bene, come erano stati capaci di funzionare bene nonostante la presenza di tante avversità. Considerava più utile gettare luce sulle cause di successo e non sulle cause di fallimento, mentre le valutazioni dei grandi programmi della World Bank erano illuminanti nell’evidenziare ciò che non bisogna fare piuttosto che su quello che si deve fare. L’esperienza le aveva insegnato che i buoni progetti dipendevano da molti fattori, non necessariamente dalle capacità intrinseche di un’agenzia. Ella proponeva quindi di indagare tali fattori, senza limiti di discipline o di argomenti. Nicoletta Stame chiama l’approccio della Tendler guardare anche altrove: vale a dire ad altri aspetti dei progetti rispetto a quelli previsti. Judith suggeriva: «guardate senza paraocchi a ciò che l’organizzazione ha di fatto realizzato, indipendentemente dai suoi obiettivi; quindi mettete a confronto realtà e obiettivi». Secondo la Stame, la si può chiamare una forma particolare di valutazione goal-free. Nel modo di guardare della Tendler non esistevano né prerequisiti per il successo, né ostacoli predeterminati, ma solo casi di successo o di fallimento da considerare.

Si potrebbe pensare che “guardare altrove” sia in contrasto con il primo passo del ragionamento di Hirschman, che è per l’appunto quello della osservazione dei progetti di sviluppo. Ma non è così perché Hirschman aveva insegnato alla Tendler (e a tutti noi) a concentrare l’attenzione su un tema delimitato (il progetto di sviluppo), ma nello stesso tempo andare a fondo, approfondire senza requie le conseguenze di tale osservazione. Ciò significava, dunque, continuare a sbrogliare la matassa e “guardare anche altrove” – inclusa un’attività speculativa basata su immaginazione, ipotesi, indagini ulteriori, congetture, analogie, paragoni, ecc. Questo procedimento lo conduceva talvolta a idee a prima vista lontane dall’osservazione iniziale, ma in realtà ad esse collegate, come è accaduto nella genesi di Exit, Voice and Loyalty (Stame 2022, ibid.).

La Stame ricorda che Tendler criticava nei fatti le teorie linerari del cambiamento e alcune metodologie della valutazione di impatto. Riconosceva la complessità dei programmi e la contribuzione di più fattori causali rispetto ad un effetto (no attribuzione di un effetto a una sola causa). Propugnava analisi comparative per mettere in evidenza cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato, offrendo chiavi di lettura al fine di migliorare le politiche. L’analisi comparativa era condotta tramite un processo iterativo, teso a scoprire «perché un particolare problema non si è presentato o, se si è presentato, perché non ha impedito di migliorare i risultati», e in ognuno di questi casi insegna a guardare dove (e perché) le cose hanno funzionato bene o male.

La Tendler – scrive la Stame – era un professionista democratico.

Ella dichiarava apertamente la sua etica del bene pubblico che si basava su due pilastri: 1) aiutare i poveri, migliorare la vita delle persone e la loro abilità di risolvere i propri problemi – economici e sociali -, e 2) migliorare il lavoro del settore pubblico al servizio della gente. Tutto ciò si rifletteva nel suo atteggiamento personale – tanto verso i committenti delle valutazioni, quanto verso i beneficiari dei programmi; e anche nel modo in cui approntava i suoi strumenti metodologici. L’attitudine della Tendler verso i suoi committenti era di completa autonomia: rispettava il loro lavoro, ma non esitava a fare presenti le proprie critiche. I suoi giudizi si basavano su ciò che aveva trovato, non sulle assunzioni dei programmi, che anzi spesso biasimava (Stame 2022, p. 147).

Aveva un “naso” particolare per scoprire quali programmi favorivano i poveri: dal punto di vista della giustizia distributiva, dell’equità e della democrazia. In vari programmi non esitava a mettere in evidenza l’apporto positivo del pubblico, il contributo degli impiegati pubblici, così come l’apporto positivo dei politici, contro pregiudizi correnti che ritenevano difficile raggiungere gli obiettivi del programma per via di una generalizzazione che tendeva a vedere corruzione ovunque. In altri casi non ha esitato a mettere in evidenza il valore e i risultati positivi conseguiti da associazioni della società civile e da ONG.

Considerava come importante il coinvolgimento e il contributo della gente per valutare, per capire «cosa è accaduto» e «cosa è accaduto dopo». Non si limitava semplicemente a interrogare lo staff di progetto, ma trovava il modo di intervistare le persone, di “bighellonare” nelle comunità in cui il progetto opera, mangiando e bevendo con la gente del luogo e con lo staff locale.

Suggeriva di venerare i successi, di sapersi sorprendere. E qui mi ha molto colpito la sua posizione sui fallimenti e sui successi, rispetto a tanta retorica mainstream che invita, al contrario, a venerare il fallimento – pensiamo al mondo delle startup e dell’innovazione, ai tanti corsi e mentor che esortano i giovani a fallire, come mezzo (buon viatico) per imparare in fretta e ottenere il successo. La Tendler affermava che si impara molto più dai successi che non dai fallimenti. Il suo è un approccio di pensiero positivo, come base dell’apprendimento.

Nel saggio sulla Tendler, Nicoletta Stame sostiene che il suo approccio può aiutare a capire meglio la pratica attuale di valutazione, ad acquisire il coraggio di contestare i rituali professionali e il conformismo teorico prevalenti, ad aggiungere contenuto e significato alla missione della valutazione.

Le lezioni di Hirshman e Tendler: come possono ispirarci e aiutarci per il presente?

In un’epoca nella quale i cambiamenti ecologici stanno imponendo un approccio sistemico che tende a considerare la profonda interconnessione tra effetti economici, sociali ed ecologici e nella quale le istituzioni, il mercato, la società civile e la comunità finanziaria stanno manifestando la necessità di adottare sistemi di valutazione di impatto al fine di misurare gli effetti di medio e lungo periodo prodotti da programmi e organizzazioni sull’ambiente e sulla società, il libro Possibilismo e Valutazione si offre come una mappa preziosa per affrontare le complesse e inedite sfide del presente e del futuro. Decisori politici, dirigenti, consulenti e valutatori, ma anche imprenditori, enti di terzo settore, cittadini impegnati in azioni sociali, possono avvicinarsi ai temi del cambiamento e della valutazione – grazie al volume di Nicoletta Stame – con la finalità di coltivare spirito critico e consapevolezza, potendo sperimentare – per chi lo desidera! – un approccio orientato a generare forme di apprendimento (learning) piuttosto che di sola rendicontazione (accountability).

L’Agenda ONU 2030 chiama istituzioni, imprese e organizzazioni tutte a concorrere al raggiungimento di obiettivi sfidanti per la prosperità delle persone e del pianeta. In tale scenario Corporate, PMI e Imprese Sociali devono ripensarsi, introducendo nuovi approcci e nuovi strumenti di misurazione degli impatti di medio-lungo periodo sulla società e sull’ambiente allo scopo di verificare la capacità delle proprie organizzazioni di creare valore condiviso (shared value).

Michael Porter, professore alla Harvard Business School ha introdotto, nei suoi scritti, il passaggio dalla Corporate Social Responsibility alla Corporate Social Innovation, suggerendo che l’impresa deve interpretarsi come agente di innovazione sociale. Grandi aziende profit e istituzioni pubbliche, secondo l’autore, possono trasformarsi in moltiplicatori di sviluppo di nuove progettualità che rispondano ad una domanda di sostenibilità, facendo leva su asset tangibili e intangibili in fase di riorganizzazione e ottimizzazione, o mediante percorsi di open innovation.

Si moltiplicano, dunque, le iniziative che hanno come obiettivo la certificazione delle aziende che siano in grado di soddisfare i più elevati standard di trasparenza, responsabilità sociale e sostenibilità ambientale, generando un impatto positivo sul contesto in cui operano. Si moltiplicano policy, direttive, norme di certificazione, nuovi profili giuridici (benefit corporation) come evoluzione del concetto stesso di azienda. Si moltiplicano, infine, gli strumenti di misurazione: bilancio sociale, bilancio integrato, ESG, standard ISO, KPI, etc.

Il tema della valutazione riguarda da vicino non più e non solo i grandi programmi di erogazione degli aiuti delle Istituzioni, delle Agenzie e delle Organizzazioni Internazionali, ma sta diventando un tema caldo per ogni organizzazione che dovrà dare conto agli azionisti e agli stakeholders del proprio agire imprenditoriale e sociale. Così come le Fondazioni filantropiche e/o di origine bancaria chiedono agli ETS (Enti di Terzo Settore) una valutazione d’impatto sociale degli interventi da loro sostenuti, le banche, i fondi di investimento e gli stakeholders iniziano a chiedere alle società, con intensità crescente, il bilancio sociale, il bilancio di sostenibilità, il report integrato o la certificazione ESG.

Tutto ciò sta generando, inutile nasconderlo, un mercato della valutazione con effetti distorsivi. In particolare, si è già prodotto uno spostamento significativo dell’attenzione dagli effetti a lungo termine a effetti netti di breve periodo, secondo una logica di attribuzione e non di contribuzione. Ci si sta concentrando ancor di più sugli output (le prestazioni, il prodotto dell’intervento, da osservare alla sua conclusione), invece che sull’outcome (i cambiamenti nel comportamento dei beneficiari rispetto al tipo di intervento, da osservare a breve o media scadenza dalla sua conclusione) e sull’impatto (i cambiamenti nell’ambiente e in altre sfere nel lungo termine). Si reitera quell’approccio valutativo mainstream, intrinsecamente schematico, monocausale, lineare, conservativo che giustifica e magnifica l’esistente più che orientarsi al nuovo e al possibile, criticato e messo a nudo, come abbiamo visto, da Nicoletta Stame, richiamando nel libro le lezioni alternative e le esperienze di Hirschman e Tendler. Le conseguenze di tale impostazione rischiano di influire in modo inconsapevole sulle mission organizzative, facendole evolvere in direzioni imprevedibili e non sempre auspicabili. Il risultato è plasticamente evidente: siamo inondati di report che, nell’ambito di una valutazione “prestazionale”, evidenziano come un numero elevato di intraprese siano miracolosamente in grado di produrre esiti sociali positivi. Finiamo con il chiamare valutazione di impatto una semplice valutazione di esito o di risultato.

È indubbio che la valutazione d’impatto sarà sempre più richiesta dagli stakeholders (non a caso di parla di capitalismo degli stakeholders come naturale evoluzione del capitalismo degli shareholders). Purpose, valore condiviso, corporate social responsibility, inclusione, attenzione alle persone, sostenibilità, bene comune sono temi oggi alla portata di tutti, buone notizie onnipresenti nei media mainstraim. Ma queste dichiarazioni vanno poi concretamente verificate, senza lasciare campo e spazio solo allo storytelling, alle buone intenzioni, al marketing o, peggio, al greenwashing. Esiti diversi, frutto di approcci complessi e maturi, richiedono determinazione e orientamenti organizzativi coerenti. Si tratta, per richiamare Nicoletta Stame, di un’innovazione che è parte integrante di un processo di learning, di innovazione degli interventi e di cambiamento organizzativo. Presuppone organizzazioni strutturalmente orientate a riflettere sul proprio operato e a ricercare nuove e migliori strade per realizzare la propria mission; rapporti di committenza nei quali il consulente, con la sua competenza, indipendenza, morale, si dedica principalmente a potenziare le capacità riflessive dell’organizzazione e si preoccupa di inserire eventuali propri contributi valutativi entro i processi organizzativi.

 

Conclusioni

Judith Tendler ha scritto che Hirschman le aveva «insegnato che per capire lo sviluppo di un paese avrebbe dovuto guardare dove non avrebbe mai pensato di guardare prima». Il libro di Nicoletta Stame, ricostruendo un viaggio intellettuale tra i più importanti e stimolanti del secolo scorso, delinea un approccio valutativo possibilista, un patrimonio di idee e di esperienze con il quale prepararsi ad affrontare sfide inedite contemporanee, urgenti per la salvaguardia dell’uomo e del pianeta.

Per tutti coloro impegnati a realizzare un mondo migliore – for a better world – il testo si offre come una bussola preziosa, all’interno di un framework di pensiero possibilista, con la quale educare ed educarci alla complessità dei nostri tempi, tramutando azioni programmate in vere e autentiche occasioni di sviluppo sociale e di espansione delle capacità umane.

 

[1] Accennando a questo tema, debbo però (preliminarmente) chieder venia ad Albert Hirschman. Perché quest’ultimo mi ha anche insegnato l’arte del silenzio come strumento difensivo. Eppure, in queste brevi note introduttive, – il lettore se ne renderà conto di persona – ho pensato (retrospettivamente e per ragioni fondamentalmente pedagogiche) di derogare a tale regola – per venire incontro all’occasione davvero speciale di questo webinar …

[2] Si è trattato, mutatis mutandis, di una “commedia degli errori” analoga a quella che, alla fine del Piano Marshall, aveva condotto Hirschman in Colombia. Infatti, anche in tale occasione, invece di adempiere burocraticamente al compito richiestogli dalla Banca, Albert aveva utilizzato il suo mandato per imparare dall’osservazione della realtà e trarne conclusioni teorico-pratiche sorprendentemente innovatrici.

[3] E’ un’osservazione che scaturisce, anche al primo sguardo, confrontando Journeys con Development Projects. Infatti il primo riguarda tre studi di policy-making economici osservati anche storicamente in un lungo lasso di tempo ed afferenti a tre paesi latino-americani, mentre il secondo si riferisce a undici progetti di sviluppo in attività, ubicati in altrettanti paesi, da cui Hirschman trae direttamente un‘agile trattazione teorica.