Tre punti per "disincagliarci"

Tre punti per "disincagliarci"

di Luca Meldolesi*

Su un tema così importante, le idee che esponiamo riflettono inevitabilmente esperienze e studi di ciascuno di noi. Per quanto mi riguarda, a mo’ d’introduzione ricordo in estrema sintesi che negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso ho fatto la spola con Princeton N.J. per rielaborare (nel dialogo con Albert Hirschman) la politica economica (la mia materia di insegnamento) nel senso dell’economia dello sviluppo, e per poterla così applicare utilmente alle condizioni del Napoletano. Inoltre, prima saltuariamente, poi per un lungo periodo – un decennio in tutto – ho lavorato in diverse collocazioni (consigliere, docente, presidente del comitato per l’emersione a Palazzo Chigi e poi al Ministero del lavoro) per il governo della Repubblica, fino al febbraio del 2008.
Queste due esperienze così prolungate sono entrate via via in contrasto lancinante nella mia mente e mi hanno obbligato ad interrogarmi a fondo sul perché dell’incredibile arretratezza del nostro sistema pubblico. A partire dal 2006 , prendendo spunto dal confronto tra la nostra situazione e quella del Nuovo Mondo (Stati Uniti, Canada, Australia, Sud Africa), ho cominciato a pubblicare in proposito un libro dopo l’altro – sto lavorando al decimo!
Così, osservando le cose da questo punto di vista, la domanda implicita del nostro incontro diventa la seguente: cosa si capisce dal confronto tra Nuovo e Vecchio Mondo, in particolare per l’Italia? Risposta: salta subito agli occhi che siamo “un Paese di pazzi”. Che mentre, per le note vicende del nostro debito sovrano, viviamo in una condizione di penuria accentuata di risorse pubbliche, abbiamo dovuto operare tagli su tagli per parti importanti di spesa (si pensi alla ricerca, alla cultura, all’istruzione ecc.), abbiamo immobilizzato (o quasi) gli enti locali ed abbiamo spinto la nostra economia in recessione, nello stesso tempo… ci permettiamo di gettare allegramente ingenti somme di denaro dalla finestra.
Sì: è proprio così!
Questa osservazione chiave suggerisce allora alcune misure che bisognerebbe attuare subito per raddrizzare la baracca ed uscire il più rapidamente possibile da questa situazione incresciosa.
La prima è quella di rendere di pubblico dominio, urbi et orbi, i conti di tutto il sistema: on line. Fino alla metà degli anni Novanta, l’Italia aveva una contabilità cosiddetta “alla francese”, basata su esercizi stocastici (cioè di previsione) della spesa aggregata utilizzati per scopi macroeconomici (che metodologicamente avevano alle loro spalle la scuola attuariale della facoltà di statistica dell’università di Roma dove ho insegnato), mentre i dati veri e propri venivano computati manualmente dalle amministrazioni ed arrivavano in ritardo di qualche annetto rispetto alle esigenze di policy (!). In altre parole: i dati non c’erano quando servivano, ed arrivavano quando non servivano più.
Ma il “diavolo a quattro” scatenato da Alberto Carzaniga al Ministero dell’economia (che ho sempre sostenuto, perfino al FMI) ha condotto infine il Paese, via Banca d’Italia, ad un sistema contabile tempestivo, funzionante (indicato dalla sigla Siope-Cup-Mip), che va certo sviluppato ancora, ma che rappresenta indubbiamente un’ottima base di partenza.
Esso è oggi monopolizzato dalla Ragioneria generale dello Stato. Basterebbe un semplice ordine di servizio per renderlo fruibile a tutti in forma disaggregata, ottenendo così, immediatamente, numerosi, straordinari risultati.

  • Primo: far uscire il Paese dalla condizione di penombra, di opacità contabile: quella che, com’è tristemente noto, è favorevole alle malversazioni, alla corruzione ed al crimine; e sospingerlo invece, vigorosamente, verso la trasparenza più assoluta.
  • Secondo: utilizzare quest’ultima come base di confronto tra performance specifiche di amministrazioni ed uffici (tra loro e con i prezzi di mercato) per scatenare una grande discussione pubblica sulla validità economico-sociale delle diverse spese.
  • Terzo: impiegare, come accennerò meglio più oltre, questo medesimo flusso di dati Siope come strumento chiave per “mettere a norma” e vincolare al confronto tutti gli uffici pubblici.
Vengo allora ad una seconda misura. Ritengo gravissimo che il governo abbia sviluppato nei mesi trascorsi un punto di vista ultra-centralista che tende in sostanza ad immobilizzare (o quasi) l’azione degli enti locali. Ma come? Il nuovo Titolo V della Costituzione riconosce uno status equiparato a Comuni, Province, Regioni e Stato centrale e poi quest’ultimo si permette di bloccare progressivamente tutti gli altri? Non si tratta di un rimedio peggiore del male (e forse persino di un’iniziativa incostituzionale)? Di una volontà scellerata di sospingere l’Italia concreta, quella territoriale, verso la paralisi (e magari verso la ribellione popolare)?
Dobbiamo pretendere l’immediato capovolgimento di questa politica; in modo da consentire agli amministratori locali di riacquistare pienamente il loro ruolo.
D’accordo, mi si potrebbe obiettare, ma i problemi di bilancio come li risolviamo? Non è forse vero che tutte le volte che è stato loro consentito, gli enti locali hanno ampliato le spese?
Qui si giunge ad un terzo punto chiave che forse non è stato ancora capito, ma che qualsiasi studente di economia pubblica del Nuovo Mondo conosce benissimo. E’ ciò che si chiama “Market- Based Governance”. E’ ciò che, richiamando alla mente un certo Monsieur de La Palice, potremmo tradurre così: una PA “fuori mercato”… va vincolata ai prezzi di mercato!
La gestione della spesa pubblica a tutti i livelli deve tener conto dei prezzi effettivi comparabili: sia delle altre amministrazioni, sia del mercato. E’ qui che fondamentalmente si annida l’immenso sperpero della spesa pubblica italiana: quello che salta agli occhi a qualsiasi osservatore che proviene dal Nuovo Mondo; quello che rappresenta indubbiamente piombo pesante sulle ali del Paese (più del sud che del nord); quello che è alla base del nostro declino (dobbiamo impedire ad ogni costo la sua perpetuazione!); quello che, a contrario, potrebbe fornirci le risorse per un vero rilancio.
La prima e la seconda misura (ovvero la trasparenza più assoluta e la libertà d’azione degli enti locali – con conseguente responsabilità) hanno, dunque, il grande merito di consentire la terza. Ovvero di richiedere (e poi di imporre) a “tutti quanti” un vincolo economico sui costi che oggi non esiste affatto.
Ed anche di costringere il governo centrale a trasformarsi profondamente per verificare in modo attento e tempestivo che ciò si verifichi davvero – al centro ed a livello territoriale – chiedendo a tutti il rispetto più assolto dei patti (foedus), come livello, ma soprattutto come tasso di variazione (vale a dire come rientro accelerato e progressivo all’interno della norma) .
Ed anche ad impostare bene una politica nuova, costruttiva, d’integrazione robusta e democratica a livello europeo.
Se fossimo in grado di avanzare coraggiosamente su questi tre piani (trasparenza, libertà d’azione e calcolo economico), sono convinto che scopriremmo rapidamente, a passo di carica, le altre caratteristiche chiave del federalismo democratico (interno ed europeo) – come la democratizzazione e la diffusione della gestione, il padroneggiamento delle differenze, l’emulazione tra uffici e territori accanto alla collaborazione, l’interpenetrazione, l’integrazione tra politica ed amministrazione e così via.
In altre parole: entreremmo in un sistema moderno, adeguato ai tempi; e dunque corrispondente alle esigenze di sviluppo e di giustizia sociale avvertite così acutamente da cittadino comune – dagli artigiani, dai contadini, dai tecnici, dai lavoratori italiani, con cui cerco di immedesimarmi.
A tutto questo esiste, dunque, una porta d’accesso: quella che ho sintetizzato nei tre punti precedenti. E’ quasi incredibile dover constatare che i principi elementari del calcolo economico sono al fondamento di tutte le attività private, di tutte le imprese, di tutte le famiglie italiane – nelle loro quotidianità; mentre invece, quando ci avviciniamo al sistema pubblico, noi stessi, cittadini di ogni estrazione sociale e collocazione territoriale, veniamo presi da improvvisa amnesia, afasia, se non addirittura da timor panico: supponiamo che la logica economica possa scomparire di colpo per lasciare totalmente il campo alla politica ed al diritto (!).
Non è così? Purtroppo è proprio così: roba da psicanalisi!
Solo l’uso estensivo del calcolo economico elementare all’interno del sistema pubblico può salvare l’Italia. Se ciò non accadrà – lo dico chiaramente – la vedo brutta, perché siamo entrati ormai in una spirale pericolosa: la recessione indebolisce il Paese e lo rende ancor meno in gradi di risolvere i suoi problemi…
Consentitemi tuttavia di aggiungere, per concludere, due osservazioni che aprono uno spiraglio alla speranza.

  1. L’Italia è il Paese delle città – me lo ha insegnato Fernand Braudel; l’ho ritrovato in pieno studiando Carlo Cattaneo. E’ una condizione favorevole. Anche perché, come avviene nei paesi leader del federalismo democratico, abbiamo in Italia due conurbazioni più importanti di altre: quelle che fanno capo rispettivamente a Milano e a Napoli. Logica vuole quindi che, se facessimo progressi accelerati in Lombardia ed in Campania (che insieme rappresentano un quarto della popolazione italiana), lasciando naturalmente la porta aperta all’inserimento costruttivo di altre regioni, potremmo forse riuscire nel nostro intento. E’ un lavoro d’iniziativa e di collegamento che Marco Vitale ed io abbiamo avviato negli anni trascorsi e che va ripreso tenendo presenti le nuove, più favorevoli condizioni.
  2. Seconda osservazione. Il problema che abbiamo di fronte, immenso com’è, è però “decomponibile” – si dice in economia. Vale a dire, fortunatamente, possiamo aggredirlo su scala ridotta, territoriale. I tre punti – trasparenza, libertà d’azione e calcolo economico – possono essere ridefiniti via via per adattarli alle diverse realtà concrete. Ciò significa allora che, se un gruppo coraggioso e determinato si impegnasse davvero a cambiare il corso delle cose in una o più amministrazioni, si potrebbe mostrare agli italiani che “est modus in rebus”, che il cambiamento è effettivamente possibile: è a portata di mano.

Non siamo un popolo di inetti, lo dimostriamo giorno per giorno in mille modi diversi. Ma siamo un popolo disorientato. Penso che, se riuscissimo ad impostare bene il problema ed a mostrare rapidamente risultati notevoli, convincenti, gli italiani capirebbero. Ed in una giornata fausta come questa, il pensiero corre, inevitabilmente, alla candidatura di Umberto Ambrosoli alla presidenza della Regione Lombarda – come passo importante: per una riscossa possibile.

*Intervento al convegno Federalismo tra Nord e Sud, Brescia 9 novembre 2012