Venti del Sud n. 13 – Maggio 2022

Venti del Sud n. 13 – Maggio 2022

Tra leadership e management, formazione e consulenza. Un modo alternativo di far crescere l’imprenditoria al Sud. L’esempio di CentoCinquanta S.r.l a Catania

Intervista di Elvira Celardi (*) a Francesco Messina, socio fondatore di CentoCinquanta S.r.l

Abstract
In questo numero, a cura di Elvira Celardi, Francesco Messina ci racconta il percorso che ha portato alla costituzione e allo sviluppo di CentoCinquanta S.r.l, una società di consulenza strategica che da oltre 20 anni affianca le imprese pubbliche e private lungo il processo di change management. E’ una storia fortemente intrecciata a quella che, a partire dalla esperienza del Comitato per l’emersione del lavoro non regolare, ha portato alla costituzione di A Colorni-Hirschman International Institute. E ci presenta un modo di interpretare le idee del possibilismo nella propria esperienza personale e professionale. La società catanese si distingue per l’uso di un approccio “fuori dagli schemi” del tradizionale modo di fare consulenza, che trae ispirazione dalle idee e dagli stimoli lanciati da Luca Meldolesi sui temi di sviluppo di derivazione hirschmaniana. La costante ricerca delle risorse inespresse e mal utilizzate e l’attenzione per la sorprendente potenzialità che si sprigiona dall’attivazione di dialoghi trasversali tra ruoli, prescindendo dalle gerarchie, rappresentano alcuni degli aspetti cardine di questo modo di fare consulenza. CentoCinquanta non si ferma alla definizione e all’applicazione di un“modello organizzativo” preconfezionato e statico, ma mira a creare valore all’interno delle imprese facendo leva sulle loro competenze endogene.

 

Francesco Messina, socio fondatore di CentoCinquanta S.r.l insieme al suo collega e amico Mauro Juvara, ha studiato economia a Catania e dopo essersi laureato, a soli 22 anni, entra a far parte del Comitato per l’emersione del lavoro irregolare presieduto da Luca Meldolesi.  Questa esperienza segnerà profondamente il suo percorso personale e lavorativo e influenzerà la storia e il metodo di lavoro della sua società di consulenza: CentoCinquanta S.r.l

Idee chiave

  • Lavorare per uno stato onesto che non si fa imbrogliare
  • Individuare e saper sfruttare le costellazioni di circostanze favorevoli
  • Seguire da vicino le aziende per comprenderne meglio i bisogni e le potenzialità
  • Trasformare l’incertezza e le avversità in opportunità
  • L’interdisciplinarietà come elemento chiave per supportare le aziende nel loro percorso di crescita 

 

“Oggi Centocinquanta si presenta come una realtà che aiuta le aziende a organizzarsi meglio e a lavorare sul controllo di gestione, ma noi non siamo nati consulenti, siamo nati imprenditori, per noi è normale inventarci delle cose, altrimenti non avremmo venduto un giornale a Mediaset, non avremmo portato gli studenti alle Nazioni Unite per sei anni, non avremmo dato vita a sei aziende. Abbiamo ospitato in ufficio oltre duecento persone nell’arco di cinque anni e queste hanno sviluppato idee di business; creato giornali online, erogato corsi di formazione a studenti e imprese, costituito una agenzia di comunicazione e grafica, coadiuvato la nascita di quattro associazioni di imprese nel meridione d’Italia, creato società di ricerca, avviato una sede in Marocco per conto di imprese siciliane, costituito un gruppo che si occupasse di sicurezza sui luoghi di lavoro e un’azienda che si occupasse di gestione della privacy.
Ci caratterizza quel tipico piglio dell’imprenditore che parla con l’altro imprenditore e dice: “ma perché stai facendo questa cosa? Falla in quest’altra maniera, io la faccio con te”. Non ci limitiamo a dare il suggerimento. La chiave del successo è l’essere insieme all’imprenditore, vivendo i sogni dell’imprenditore anche quando lui non ci crede”

***

I – Che cos’è Centocinquanta

 

Cosa caratterizza una società di consulenza come CentoCinquantaS.r.l ?

CentoCinquanta non è stata da subito una società di consulenza, agli esordi è stato un luogo “possibilista”. I suoi fondatori avevano appena 23 anni quando decisero di affittare un ufficio al civico di via Umberto 150 a Catania (da cui viene il nome) e hanno fatto dell’assenza di un’idea specifica su cosa fare un punto di forza. Diverse esperienze, vissute in modo caotico, hanno fatto da apri pista all’idea che nel tempo si è sviluppata: offrire servizi consulenziali affinché si potesse godere di una visuale privilegiata sul mondo dell’impresa e più genericamente un contatto privilegiato con leader di diversa estrazione.

In questi anni abbiamo scoperto che: innovare implica avere tempo e mente libera da preconcetti; che gli imprenditori soffrono di solitudine e se da un lato sentono l’esigenza di scambiare idee che favoriscano il confronto, dall’altro – per farlo – hanno bisogno di un clima di estrema fiducia.

Ogni organizzazione che abbiamo conosciuto ha in sé il potenziale di accrescere la sua produttività del 30% semplicemente migliorando la comunicazione interna e le procedure, senza alcun aggravio di costi, ma per fare tale salto in avanti è necessario abbattere delle barriere culturali. Credere che l’altro non possa crescere, pensare che non si possa costruire un sistema di controllo alternativo al comando diretto e la conseguente sfiducia nella delega, sono le tre barriere che più spesso si incontrano lungo il cammino di affiancamento.

Nella pratica cosa distingue l’approccio metodologico di CentoCinquanta?

Noi ci allineiamo al celebre monito metodologico di Manlio Rossi-Doria riguardo la necessità per ogni economista di “sporcarsi le scarpe”, di vivere l’azienda quanto necessario a comprendere appieno le dinamiche e testarne in prima persona gli effetti.

Per esempio: abbiamo partecipato direttamente alla messa in funzione delle nuove procedure di gestione dei magazzini affiancando i magazzinieri e formando il capo magazziniere; abbiamo verificato direttamente che la procedura acquisti venisse correttamente intesa dai dipendenti coinvolti; abbiamo predisposto le distinte base insieme ai responsabili di produzione al fine di comprendere le reali difficoltà e formare chi da quel momento in poi avrebbe dovuto proseguire il lavoro; abbiamo affiancato gli area manager per verificare il modo in cui motivavano e formavano i venditori sul campo.

II –  Un po’ di storia

 

Da dove comincia il percorso che ha portato alla nascita di CentoCinquanta e del suo approccio possibilista?

Io partirei da quando frequentavo l’università; mi sono laureato in economia, seguendo un percorso squisitamente teorico. Mi piaceva la modellistica dell’approccio neoclassico, che per me era una sorta di routine in cui alla fine ti ritrovi sempre due rette che si intersecano in un punto e ti dicono qual è l’equilibrio.

Se dobbiamo fare qualche passo indietro, ai tempi in cui frequentavo l’università, mi nutrivo del fatto che un ragazzo molto in gamba aveva creato un’associazione che riusciva a tenere insieme professori universitari e studenti dell’ultimo anno. Un avventura, questa, che durò circa  tre anni.

Noi ragazzi, insieme a professori di varie discipline, affittavamo un pullman e andavamo a parlare con i sindaci di diversi comuni della zona per lavorare sull’economia di quel posto, ma lo facevamo per passatempo. Abbiamo fondato anche un giornale. All’epoca rigavamo su tanta roba, c’era tanta energia e soprattutto il rapporto con i professori non era il solito rapporto accademico. È chiaro che nel momento in cui dovevamo studiare e sostenere l’esame tutto tornava com’era, però non c’era più il classico rapporto reverenziale che normalmente si crea tra studenti e docenti. Era un rapporto sempre rispettoso ma non traumatico. E quindi uno andava più veloce, riusciva ad approfondire le cose in maniera differente. Nella mia sessione di laurea, infatti, si sono laureati anche gli 8 o 10 amici coi quali condividevo questo percorso. C’era un clima molto bello. Io avevo trovato lì il mio luogo di riferimento sia scientificamente parlando, sia socialmente e amicalmente.

Mi si prospettava una carriera di dottorato in economia, forse un po’ di fila d’attesa, per fare poi il professore all’università. Immaginavo questo.

E poi cos’è successo? Perché hai cambiato idea?

A un certo punto questo mio percorso viene “traumaticamente” deviato. Un giorno mentre bazzicavo per i corridoi della Facoltà di Economia, come facevo normalmente, a poche settimane dalla laurea, in attesa di scrivere qualche articolo con qualche professore o semplicemente per salutare gli amici che non si erano ancora laureati, una professoressa dei tre con cui lavoravo più spesso –  la prof.ssa Mariella Musumeci –  mi chiese di entrare nel suo ufficio e mi disse: “ mi ha appena telefonato un mio amico, il professore Meldolesi, il quale ha ottenuto un incarico al governo per creare un comitato e sta selezionando un gruppo di giovani e vorrebbe incontrarne qualcuno qui su Catania, non ho capito bene se per lavorare al Governo”.

Invece non aveva capito male.

Io ero lì di passaggio, non c’era un motivo per cui mi trovavo là se non la mera casualità.  Fondamentalmente mi trovavo nel piano giusto al momento giusto; ma se in quel momento al posto mio fosse passato uno qualsiasi degli altri otto amici con i quali avevo condiviso quel percorso, sicuramente la professoressa lo avrebbe detto anche a loro.

Incontrai questo professore l’indomani nella stanza della professoressa. Lui mi parlò di cose che io non ho capito, perché da un lato non avevo nessun sostrato culturale utile per poterle comprendere e dall’altro azionavo un meccanismo che mi portava a ricercare quello che lui mi stava dicendo in qualche capitolo o paragrafo che avevo studiato senza però saperlo collocare da nessuna parte. Mi sono reso conto che parlavamo due linguaggi completamente diversi.

Comunque, sta di fatto che gli dissi senza remore: “professore, il progetto non l’ho capito bene, sarà molto interessante; ma io non ho fatto la tesi su un argomento legato a questo tema… non sono la persona adatta a lei e al lavoro che bisogna fare”.

Lui mi disse: “guardi, io ho capito che lei non è adatto. Domani mattina, se non ha niente da fare, mi venga a prendere e andiamo insieme a vedere che non fa per lei”.

Pensai che probabilmente avesse apprezzato la sincerità e che gli servisse semplicemente un passaggio per andare a Messina. Ho scoperto solo dopo che era il suo modo per conoscere meglio le persone.

La mattina seguente mi svegliai all’alba, aspettai sotto la casa dove alloggiava il professore e alle 7.30/8.00  ci avviammo verso Messina.

Il colloquio vero e proprio non si è svolto nella stanza della professoressa, ma lungo il tragitto per Messina.

A quel punto, essendo maggiormente disinibito dal fatto che non dovevo per forza trovare l’articolo scientifico in cui si collocava quello che mi stesse dicendo, ho richiamato alla memoria le decine o addirittura centinaia di episodi che mi hanno visto coinvolto in maniera diretta o indiretta nel sommerso.

Ricordi qualche esempio?

Parliamo del fatto che al fratello del mio più caro amico, quando aveva soltanto 15 anni, mentre lavorava in nero presso un meccanico, è caduta addosso la frizione di un camion staccandogli quattro dita di un piede e due dell’altro. Fino a qua si potrebbe pensare che si trattasse semplicemente di un incidente sul luogo di lavoro. All’epoca non c’erano neanche troppi dispositivi di sicurezza.

Quando è stato portato in ospedale, tuttavia, hanno rilasciato una falsa dichiarazione in cui si attestava che l’incidente era avvenuto altrove e in altri modi.

Chiesi al mio amico come mai non avessero denunciato l’accaduto, in modo tale da far scattare l’assicurazione e ottenere almeno un risarcimento per il fratello. I suoi genitori avevano spiegato al fratello che, se lo avessero fatto, non avrebbe più trovato lavoro da nessun’altra parte.

Questo era parte del DNA nel quale io mi sono trovato a crescere. Sebbene io ne prendessi le distanze, riuscivo a leggere quegli elementi e i loro contesti, ero consapevole che fosse comune sebbene non fosse giusto.

Quindi, come si è conclusa quella giornata a Messina?

Il giorno in cui siamo andati a Messina per una serie di fortuite coincidenze si trovava lì (ma semplicemente perché è di origine messinese) anche l’amministrativo che normalmente sta a Roma e aveva con sé dei contratti vuoti da firmare. Meldolesi mi disse: ” il contratto è là, firmalo, così inizi a lavorare con noi”.

Mi sono trovato al governo a 23 anni. Ho fatto questa esperienza per due anni perché poi il comitato è stato sciolto.

Cosa hai imparato da questa esperienza?

Meldolesi mi chiamava il topo di campagna: io stavo un po’ nel mezzo tra il conoscere come il mondo andasse gestito e come il mondo fosse in realtà.  Questo piano mi ha permesso di vedere le cose in maniera peculiare.

Detto questo, in questi due anni fondamentalmente, al di là delle cose che abbiamo fatto o abbiamo provato a fare, mi sono reso conto che la teoria economica studiata all’università non era sufficiente a spiegare la complessità, perché fondamentalmente nella teoria neoclassica la complessità non esiste e, altro elemento chiave, la teoria neoclassica non fa alcun uso della storia.

L’economia è astorica e lineare. Queste due falle dell’economia mi hanno messo in forte difficoltà nel desiderio di tornare a fare le cose che facevo prima di conoscere il Comitato in generale e Meldolesi in particolare.

Perciò cosa hai fatto una volta conclusa questa esperienza?

Finita l’esperienza al governo mi si è prospettata l’opportunità di fare il test di ammissione per il dottorato in economia pubblica, che ho superato con borsa.

Durante il dottorato sono andato all’estero. Ho scelto di andare a Bruxelles per tre ragioni: in primo luogo perché avevo una carenza atavica nell’inglese che ho migliorato soltanto successivamente; perché Meldolesi mi ha dato l’opportunità di appoggiarmi il primo mese a casa sua e da lì trovare una casa mi sarebbe stato più semplice; e infine perché costava meno rispetto a tutte le altre città.

Durante il dottorato, in parallelo, avevo già creato con Mauro Centocinquanta.

Qual è stata la molla scatenante che vi ha spinto a costituire CentoCinquanta?

Io, per legge, avrei dovuto svolgere il lavoro di tutor al comitato presso la Camera di Commercio, che avrebbe dovuto fornire la struttura. L’apparato istituzionale locale, tuttavia, litigò politicamente con il governo perché voleva l’ultima parola sulla scelta del tutor. Fatto sta che alla fine mi diedero una stanza senza alcuni servizi: non c’era internet, non c’era neanche il tavolo. Allora mi sono detto che era inutile rimanere là e portare il tavolo da casa mia e ho deciso di cercare un ufficio.

Mauro a sua volta stava cercando un ufficio perché si era appena laureato e voleva fare qualcosa “di suo” nella vita e ha trovato un ufficio in via Umberto al civico 150. Quindi abbiamo deciso di “andare a vivere insieme”, come si suol dire, ma non avevamo né arte né parte. Abbiamo deciso di creare un’associazione per evitare di spendere i soldi di tasca nostra ogni mese. Conferivamo un bonifico all’associazione e l’associazione pagava le spese dell’energia elettrica. All’inizio ci staccavano spesso l’energia elettrica, perché per distrazione ci dimenticavamo di pagare le bollette.

A Meldolesi, inoltre, serviva un altro tutor a Catania, e dopo diversi colloqui anche Mauro è entrato nello staff.

Di fatto il percorso culturale mio e di Mauro (che è: teoria economica all’università, master, lavoro al governo e dottorato) sono identici: sovrapponibili, anche se la pensiamo in maniera opposta su quasi tutto e ciò ha sempre rappresentato un enorme punto di forza.

Quando avete iniziato a realizzare le prime iniziative sul territorio?

A un certo punto, mentre io ero all’estero, Meldolesi ha deciso di andare in perlustrazione a Rimini al meeting di Comunione e Liberazione. Non c’era mai andato prima e mai c’è stato dopo, per quanto mi è dato sapere, semplicemente era curioso di vedere l’ambiente. Lì ha incontrato una persona che lavorava per un Ente che si occupava di sviluppo e attrazione degli investimenti a Catania, un ente che per un certo periodo ha avuto budget e poi è stato soppresso.

Meldolesi gli spiegò che avevamo appena finito un corso di internazionalizzazione molto grande presso Field in Calabria (una Fondazione che era nata come spin-off dell’esperienza del Comitato) e gli disse che, qualora avesse voluto, si sarebbe potuto provare a clonare questa esperienza a Catania.  In questo modo “Investi a Catania” avrebbe potuto realizzare un progetto interessante e dei giovani catanesi avrebbero continuato a fare esperienza aiutando delle imprese del territorio.

La Provincia mise subito a disposizione 100 mila euro, loro [quelli dell’Ente] ne misero altri 150 mila col patto che avremmo dovuto coinvolgere le imprese e avremmo dovuto trovare uno staff di una ventina di persone che curasse le relazioni con ciascuna impresa e facesse delle attività di formazione e tutoraggio.

In quel periodo io ero ancora all’estero e mi sono dovuto dividere tra il master a Bruxelles e questo progetto catanese che rappresentava il primo progetto di grande rilievo per CentoCinquanta.

Questo è stato il primo lavoro grosso sul quale ci siamo potuti “testare”.  Abbiamo preso alcuni elementi del format di Field e l’abbiamo replicato, beneficiando del contributo di docenti di altissimo profilo che venivano da questa esperienza. Siamo riusciti a coinvolgere una quindicina di aziende che hanno partecipato a questo corso e con alcune siamo ancora in ottimi rapporti a distanza di vent’anni.

Tra queste aziende ce n’era una che produceva benne (cioè pale per il movimento della terra) di un tale Paolo Carrasi, una persona piena di estro e di stimoli. Lui era desideroso di crescere e quindi era curioso di capire di più su questo tema. Durante il corso è stato l’unico a rendersi conto che il gruppo che aveva messo in moto questa macchina aveva diverse competenze che oscillavano dalla capacità di organizzazione, di effettuare formazione e la capacità di tessere reti relazionali. Per questo ci disse: “io e altri quattro imprenditori abbiamo costituito recentemente un’associazione di impresa alla zona industriale di Catania, perché non ne possiamo più dei disagi; delle buche infinite che rompono tutti i camion; del fatto che la zona industriale si allaga; del fatto che non ci sia internet, ma soprattutto di una Tarsu, (tassa sulla spazzatura) che è proprio alta. Se vi interessa vi posso presentare a questa neonata associazione e ci date una mano facendo da segreteria tecnica”.

Noi avevamo circa 24 o 25 anni e quindi per noi era tutto fantastico; ma soprattutto era l’occasione per poter conoscere centinaia di aziende in un colpo solo e quindi ci siamo lanciati a capofitto in questa avventura. Avventura che sapevamo che di suo non ci avrebbe dato un centesimo, perché noi prendevamo le quote associative (che erano 300 euro l’anno) e li davamo al ragazzo che fisicamente si recava col motorino tutti i giorni alla zona industriale per fare attività di sensibilizzazione. Il lavoro, quindi, era fondamentalmente pro bono. Ma questo non ci spaventava perché nel fare questo e nel curare le relazioni entravamo in contatto con decine di imprese e nutrivamo la speranza che qualcuna di esse iniziasse a guardarci come utili per fargli consulenza. Questa era una pia illusione e lo scoprimmo a nostre spese due anni dopo.

Qual era la situazione della zona industriale a Catania? Cosa avete scoperto?

Abbiamo scoperto che l’assenza dello Stato nelle zone industriali è un problema enorme. Le imprese sono invitate a produrre in aree sulle quali non vige alcuna attenzione e le cui infrastrutture sono scarse, sconnesse e abbandonate. Sulla questione della Tarsu va aperta una parentesi a sé.

Quando un Comune redige un bilancio di previsione non può ammettere che quello che prevede di incassare sia più basso delle spese che dovrà sostenere. Per non dichiarare il dissesto il Comune gonfia i ricavi attesi, quindi gonfia le cartelle Tarsu. Nel frattempo che arriva la cartella e che viene fatta la contromossa da parte dell’azienda con l’avvocato, sarà passato un anno e quindi il bilancio sarà già stato approvato e le differenze saranno colmate con debiti.

Questo problema e la relativa soluzione lo ha dichiarato tal quale l’Assessore, che durante una riunione a porte chiuse disse:”volete far fallire il Comune? Non possiamo evitare di mandare cartelle alte sulla Tarsu, portate avanti la causa con l’avvocato sapendo che la vincerete sempre”. Io ho risposto: ” noi vorremmo uno Stato onesto che non si fa imbrogliare. Questo mi sembra uno stato disonesto che desidera farsi imbrogliare“.

L’assessore mi rispose: “e che vuol fare? Io ho le mani legate”.

Ne traemmo una amara lezione su come (non) funziona l’apparato politico e pubblico e sull’impossibile dialogo col sistema privato. Tuttavia non bisogna arrendersi, conoscere il problema è parte della soluzione. Continuammo coinvolgendo Confindustria, Api industria, Confcommercio e in quei mesi divenne uno dei temi caldi dell’agenda. L’ente non cambiò l’approccio, ma a livello del singolo ufficio e del singolo dipendente pubblico notammo un ammorbidimento delle posizioni e una maggiore disponibilità al dialogo. Sarebbe stato necessario imprimere ancora maggiore energia, ma le nostre stavano iniziando ad esaurirsi.

Nonostante queste difficoltà, siete riusciti però a risolvere qualche problema? Come avete fatto senza il supporto del Comune?

Racconto un altro aneddoto per far capire cosa abbiamo brigato. Basti pensare che nella zona industriale non si capiva a chi bisognasse rivolgersi per i servizi che afferivano alla zona industriale stessa.

Per esempio:”se c’è un problema di allagamento a chi mi devo rivolgere? Se ho un problema di un terreno abbandonato con le erbacce a chi mi devo rivolgere? Non si sa!”

Non è bastato semplicemente recarsi all’ASI (che all’epoca era l’ente preposto al controllo della zona industriale). Non ci davano i numeri di telefono dei dipendenti pubblici che lavoravano là dentro, non ci fornivano le e-mail, non ci spiegavano neanche chi dovesse fare cosa. Abbiamo dovuto fare un’indagine da “007” per capirlo. Poi abbiamo scoperto che alcuni servizi sempre esistenti sulla zona industriale erano gestiti dalla provincia e altri dal comune. Quindi abbiamo prodotto un volumetto in cui abbiamo messo nero su bianco per ogni servizio a chi rivolgersi.  Tutto ciò è stato apprezzatissimo perché ha tolto ogni dubbio su “chi -fa – cosa”.

In quel periodo è emersa la nostra capacità di movimentare soluzioni e di aggregare: siamo riusciti ad aggregare realtà come Confindustria…con le quali abbiamo prodotto un documento unico col quale chiedevamo che fosse abbattuta la Tarsu alla zona industriale. Noi che eravamo un’associazioncina da niente ne eravamo i capofila. Attività di lobbying di questo genere ne abbiamo fatte tante.

La vostra azione si è concentrata soltanto alla zona industriale di Catania? Che sviluppi ha avuto questa giovane associazione?

A un certo punto si era ingenerata in noi l’idea sbagliata che questi problemi fossero presenti soltanto nella zona industriale di Catania. Io però non potevo cedere a questo pensiero.

In quel periodo, inoltre, stavamo provando ad aggregare gli ex colleghi del Comitato intorno a un’Associazione che chiamammo “Cave canem”. Questa associazione serviva a tenere uniti gli ex colleghi e anche gli allievi di Meldolesi. Dopo “Cave canem” si chiamò Effeddì e poi ACHII.

Oggi tutti hanno il numero di telefono degli altri, si scrivono reciprocamente e costruiscono progetti insieme, ma all’epoca non era così. Io ho fatto il giro di tutta Italia, ho conosciuto tutti, uno ad uno e con ciascuno abbiamo capito cosa si potesse fare e poi abbiamo creato otto momenti di incontro residenziali, dove per due giornate si parlava di tematiche varie. Una volta l’abbiamo fatto a Catania, una volta a Napoli, una volta in Puglia, etc.

La possibilità di godere di un’associazione che tenesse insieme gli ex colleghi del Comitato e un’associazione di impresa a Catania, mi ha fatto pensare che a qualcuno degli ex promotori di sviluppo locale potesse interessare l’idea di clonare l’esperienza fatta alla zona industriale di Catania.

All’epoca (era il 2007) non ero in grado di capire che la clonazione non funziona. Così alla fine abbiamo creato quattro associazioni gemelle, scoprendo che tutto il meridione in tutte le zone industriali aveva lo stesso problema. Abbiamo aggregato circa 500-600 imprese in totale, tutte iscritte alle varie associazioni. Per due volte siamo riusciti anche a farle incontrare in call per farle dialogare tra di loro. All’epoca, non era così semplice: c’era solo Skype e a malapena pigliava internet.

Questa cosa attrasse l’interesse dell’Università di Bologna e anche quello del presidente dell’Associazione degli imprenditori italiani in America il quale venne a Catania. Abbiamo fatto un mega convegno dove si parlava delle reti di impresa italiane in America e delle reti di imprese italiane in Italia.

In quel periodo ho trascorso due giorni presso le zone industriali del Nord Italia, per capire se il problema fosse solo del Sud, scoprendo che invece il problema è presente su tutto lo stivale. Sono stato anche in Sardegna, dove stavamo per costituire un’altra organizzazione del genere: anche lì il problema era identico. Quindi il problema era generalizzato: cioè le zone industriali sono un luogo bistrattato in tutta Italia.

Dopodiché, all’improvviso, questa storia finì e venne tranciata da me dalla sera alla mattina. Mentre queste associazioni continuavano a crescere e a svilupparsi, fino al punto che sognavamo di creare un ufficio a Roma per cominciare ad aggregarle tutte, CentoCinquanta non prendeva neanche un cliente. Non riuscivamo a portare a casa un euro. Di fatto non stavamo creando un mestiere. Però tutte le imprese ci aprivano le porte, quindi io ho scritto circa una sessantina di preventivi, anche molto approfonditi che mi hanno permesso di fare qualcosa come 60 casi studio di aziende, che poi purtroppo non sono diventati clienti; ma sono serviti a fare il know-how che ci ha permesso poi di ottenere il primo cliente.

Organizzavamo seminari e convegni ai quali non venivano mai meno di 70-80 imprese. Avevamo la capacità di attrarre e di entrare presso le aziende.

Come mai non riuscivate a prendere neanche un cliente? Cosa avete ideato per tirarvi fuori da questa situazione?

A un certo punto ho iniziato a chiederlo agi imprenditori più vicini e uno di questi mi disse: “il problema è che voi venite visti come ‘i carusi della zona industriale’. Voi siete quelli che sbrigate cose per il bene comune, fate rumore, ma per farmi aiutare in azienda chiamerei qualcuno che considero professionista”. Questo era il mood del marketing negativo che eravamo riusciti a generare. E’ come se uno che è abituato a fare il maestro cioccolataio un giorno ti dicesse: “perché non mi affidi la tua contabilità?”. Tu gli diresti: “non me la sento”, anche se questo avesse studiato economia, fosse abilitato alla professione di commercialista…Non ha importanza, tu continui a vederlo come quello che fa il cioccolato. Questa cosa ci ha devastato oltre ogni misura.

Dopo aver concluso il dottorato un’altra scoperta: detenere competenze di un certo genere fosse visto come controproducente per lavorare in azienda. “Hai fatto il dottorato? Allora sei pieno di teoria, a me serve uno che conosca la pratica”.

A questo punto, dalla sera alla mattina, abbiamo dato disdetta della nostra presenza a tutte le associazioni e siamo spariti da questa nicchia di mercato. È stato difficile all’inizio. Io ci ho messo mesi per far comprendere le nostre motivazioni anche perché non riuscivo a trovare le parole giuste per spiegare una cosa del genere. È stata una scelta pesantissima, sofferta, ma indispensabile.

Ancora oggi noi nella zona industriale di Catania abbiamo pochi clienti rispetto a quanti ne abbiamo a Marsala, a Pavia e in altre zone di Italia. Ancora oggi paghiamo questa situazione che per fortuna si è sistemata.

L’associazione CentoCinquanta è sparita, è diventata una Srl e si è aggiunto un terzo socio, Filippo D’Amico, il quale aveva da poco concluso un’esperienza di 12 anni come CFO in una multinazionale.

Lui aveva 50 anni ed era la faccia che alle aziende piaceva vedere, perché, sebbene io mi facessi crescere la barba, all’epoca avevo pur sempre 30 anni. Lui era già strutturato, aveva sondato le zone di Marsala e Mazzara del Vallo e molti clienti abbiamo iniziato a prenderli lì … poi  anche nel catanese e in giro per tutta Italia. Oggi siamo in 21 e abbiamo seguito oltre 260 imprese, però quello fu lo snodo fondamentale.

Da lì in poi abbiamo cominciato a tagliare dei rami che non ci convincevano più.

Questo marketing negativo è stato inevitabile. E’ vero che all’epoca noi non avevamo un posizionamento. Abbiamo fatto cose estremamente diverse tra loro: abbiamo creato un giornale universitario che ha attirato anche l’interesse di alcuni fondi di investimento, ma che alla fine  abbiamo venduto a Mediaset perché così ci sembrava giusto in quel momento; abbiamo portato per 6 anni studenti universitari alle Nazioni Unite; avevamo un’agenzia di grafica che è arrivata a fare il packaging per una famosa brioscina di Catania; abbiamo creato un brand che si occupava di sicurezza nei luoghi di lavoro e l’abbiamo chiamato “Condom. Se ti proteggi non rischi”. Facevamo cose belle, ma che tra loro non avevano alcun nesso.

Possiamo dire di essere stati un incubatore di tante realtà, quando ancora la parola incubatore non esisteva. Di copie delle chiavi del primo ufficio di Centocinquanta ne abbiamo fatte oltre 100. Io entravo alle 3 di notte e c’era gente. Era normale, c’era sempre gente. Questo però ha fatto sì che l’ufficio fosse frequentato da chiunque, dall’erigenda software house oggi affermata, all’amico che aveva voglia di strimpellare con la chitarra. Quando poi ci siamo spostati in un ufficio più grande abbiamo cominciato a tagliare i ponti con un pezzo di passato e anche questo non lo abbiamo fatto a cuor leggero.

III –  Prospettive future

 

Quali sono le vostre prospettive future?

Adesso stiamo cominciando a capire che di quel passato ci sono degli aspetti che vogliamo riprendere, come per esempio: la cura del rapporto con i più giovani e il fatto di offrire anche a loro la possibilità di creare delle aziende o ancora la possibilità di sostenerli con delle borse di studio.

Inoltre, poiché il mercato della consulenza è in crescita, sarà il caso di prendere qualche altra persona, di strutturarsi sempre meglio e soprattutto di avere una struttura che non sia dipendente dal fatto che a fare consulenza ci vadano i soci.

Sicuramente va meglio di prima, perché oggi abbiamo una squadra di consulenti che vanno dai clienti da soli per mesi e riescono a gestirli in maniera pressoché totale. Però ancora c’è qualcosa che va sistemato. Soprattutto sotto di loro non ci sono degli junior. Quindi deve crescere la struttura, ma questo diciamo che è un fatto di crescita naturale.

Una volta che questa si potrà mettere a regime, la tentazione è di aprire una sede a Milano e una ad Amsterdam. Questo è un po’ il sogno che si basa sul progetto più avanzato che abbiamo: la messa a punto di un software all’interno del quale un consulente competente che sia stato formato da noi possa inserire tutto quello che attualmente viene svolto in modo manuale. Il software simula il modo in cui noi facciamo consulenza.

Questo software, il cui funzionamento è molto complesso da spiegare, servirà un po’ da base per poter ampliare ad una platea di consulenti molto più ampia il nostro raggio d’azione. Non esiste nulla del genere sul pianeta e non potrebbe esistere, perché è frutto del modo in cui abbiamo impostato il nostro modo di lavorare.

È una cosa che da qua a qualche mese completeremo, passeremo a una fase in cui piano piano la dovremo cominciare a utilizzare tutti internamente ed una volta che sarà ben strutturata e funzionerà come si deve, a quel punto aprire la sede a Milano o ad Amsterdam significherà assicurare una espansione del mercato con forti economie di scala. Senza questo software questo passaggio sarebbe impensabile.

Il vostro metodo si basa molto sul contatto diretto con l’imprenditore, una sorta di role-taking, l’uso del software non rischia di compromettere questo approccio?

Il software non potrà mai escludere il fatto che dall’altra parte l’imprenditore avrà una persona che non si limiti a dirti: “devi fare così, altrimenti peggio per te”, ma si metta le tue scarpe e cammini con le tue scarpe per il tempo necessario a capire qual è il vero problema.

Questa attenzione non deve mai mancare, perché se manca possiamo essere sostituiti da chiunque. Vi sono ottimi professionisti, bravi ed iper – specializzati nel proprio campo, ciò che spesso manca è l’interdisciplinarità, nel nostro caso, un arricchimento delle competenze che consenta di saper aiutare. Per cui è meglio posizionarsi a metà strada tra la leadership e il management… Per esempio un’imprenditrice mi ha chiesto cosa avrebbe dovuto dire a un suo dipendente per motivarlo, questa domanda, posta ad un controller può comportare frustrazione per l’incapacità di saper fornire la risposta adeguata.

Viceversa se assumi lo psicologo in azienda, ti darà sicuramente la risposta corretta, ma non ti saprà suggerire se tenere un business o toglierne un altro. Quindi padroneggiare quella via di mezzo che sta tra la tecnica e le soft skill è  la parte più difficile ed è quello su cui riusciamo a dare il valore aggiunto.

 

Idee da ricordare

  • Francesco è stato in grado di mettere in discussione le sue idee e i suoi programmi sapendo cogliere le costellazioni di circostanze favorevoli che gli hanno permesso di aprirsi a nuove possibilità di cambiamento.
  • I soci fondatori di Centocinquanta hanno fatto dell’assenza di una idea specifica su cosa fare, e al tempo stesso della capacità di inventare nuove iniziative, un punto di forza.
  • Per aiutare le aziende a innovarsi e a sviluppare il proprio potenziale di crescita, il consulente deve “vivere l’azienda”, creare un clima di fiducia e far leva sulle risorse endogene, spesso latenti, inespresse o male utilizzate.

*Elvira Celardi è Ricercatrice in sociologia generale presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania