Il dilemma della politica: incrementalismo, possibilismo e teoria della complessità

Il dilemma della politica: incrementalismo, possibilismo e teoria della complessità

di Mita Marra
 
Introduzione
Nella stagione delle riforme che investono attualmente il nostro paese, delineare il cambiamento desiderato nei diversi campi delle politiche pubbliche è un vero e proprio dilemma politico. Decisori, analisti, valutatori e studiosi della politica si interrogano su cosa, quanto, perché, in che modo, in quali tempi e in quali circostanze ‘cambiare’. Si tratta di interrogativi che sottolineano l’esigenza di migliorare la programmazione, l’integrazione degli interventi settoriali e la gestione dei processi decisionali in modo trasparente e pluralistico, secondo i principi di sussidiarietà dei sistemi di governance multi-livello. Nel dibattito scientifico, la questione particolarmente discussa è se le scienze sociali possano contribuire a dar corpo al cambiamento atteso, a migliorare le politiche e la politica. Nel secolo scorso, nel pieno sviluppo delle scienze sociali applicate, studiosi del calibro di Lindblom e Hirschman (solo per citarne alcuni)1 hanno elaborato modelli di analisi valutativa più fedeli alla realtà dei sistemi politico-amministrativi osservati. In contrapposizione ai modelli della scelta razionale, l’obiettivo più o meno dichiarato era quello di generare conoscenza utile o utilizzabile dalla politica (Lindblom e Cohen, 1979). In un ideale dialogo con gli autori appena citati, mi interrogo, in questo articolo, su come prefigurare e valutare il cambiamento desiderato. Con riferimento alle elaborazioni di Albert O. Hirschman e Charles Lindblom, metto a fuoco i contributi più innovativi che sono tuttora in sintonia con i recenti approcci che si inscrivono nel paradigma della complessità. Al fine di superare l’impianto rational choice nell’analisi e valutazione delle politiche pubbliche, il mio ragionamento scardina le premesse su cui si basa l’approccio mezzi-fini, secondo cui le relazioni causali sono di natura lineare e gli effetti prevedibili, misurabili e potenzialmente trasferibili in altri contesti. Secondo tale impostazione, l’analisi e la valutazione dei programmi ‘servono’ a formulare pareri e giudizi sull’opportunità di aumentare la scala degli interventi per incrementare la portata e la velocità di diffusione del cambiamento desiderato. Diversamente, sono convinta che l’analisi e la valutazione delle politiche pubbliche abbiano un ruolo forse meno ambizioso ma non meno prezioso e utile al processo decisionale. Ricostruendo come e perché si genera apprendimento sociale e politico, il sapere valutativo mette a nudo le complessità dei programmi e dei contesti e le loro reciproche interazioni. Le riflessioni di Hirschman a tal proposito sono illuminanti: il disegno di un progetto/programma prende le mosse dalla constatazione delle lacune esistenti – “carenza di capitali e/o di competenze, volontà di concedere promozioni in base al merito, abilità di mediare i conflitti tra diversi gruppi etnici o sociali” (Hirschman, 1987: 130e seguenti, trad. mia). L’autore distingue tra interventi trait-making e interventi trait-taking, in grado di superare i problemi esistenti attraverso graduali processi di apprendimento (Hirschman, 1967). I programmi co-evolvono con il contesto e contribuiscono a mutarne i tratti, ‘importando’, nel breve periodo, risorse non ancora disponibili. In alcuni casi, la formazione di competenze che sostituiranno le risorse ‘importate’ dall’esterno è incrementale; in altri casi, il cambiamento è rapido, radicale. Le conseguenze per l’analisi e la valutazione delle politiche pubbliche sono, quindi, evidenti e significative. Nel tradizionale rapporto mezzi-fini, i programmi combinano strumenti (mezzi) eterogenei coerentemente con gli obiettivi dichiarati al fine di realizzare i risultati attesi – es. aumento del numero di imprese internazionalizzate, perequazione dei compensi tra uomini e donne, ecc. Sia gli obiettivi che i risultati sono tradotti in indicatori quali-quantitativi che misurano il progresso realizzato man mano che la politica viene attuata. Il cambiamento è quantificato nella stima del saldo netto tra i costi e i benefici sociali e, in uno schema di causalità unidirezionale e lineare, le attività messe in campo causano i mutamenti osservati, a prescindere dalla reazione soggettiva dei beneficiari e degli altri attori coinvolti nel contesto. Considerando in tal modo i programmi, si rischia di perdere di vista i significati che gli agenti attribuiscono ad un certo risultato e i meccanismi di cambiamento che conducono a determinati esiti in contesti differenti (Pawson, Tilly, 1997; Elster, 1998; Bevir, 2011). L’approccio teorico-metodologico che propongo in quest’articolo fa leva, invece, sulla complementarietà e sulla diversità degli strumenti delle politiche pubbliche. Gli obiettivi dichiarati nei programmi pubblici evolvono nel tempo (Witt, 2003) per far emergere altri obiettivi politicamente rilevanti o per rivelare le motivazioni implicite che hanno mosso gli attori in prima battuta. Gli strumenti adottati hanno un impatto variabile in circostanze diverse e possono innescare nessi di causalità non solo lineari e unidirezionali ma anche e soprattutto bi-direzionali, interattivi e iterativi nel tempo a seconda dell’intensità dei meccanismi sociali che facilitano o impediscono il cambiamento desiderato (Pawson, Tilly, 1997; Elster, 1998). Le conseguenze inattese delle politiche sono esternalità virtuose o meno che endemicamente emergono nelle interazioni interpersonali, organizzative e istituzionali (intenzionali o meno) e che riducono la reversibilità degli effetti (sfavorevoli) delle politiche (Callon, 1998). In ultimo, la razionalità limitata preclude la conoscenza e l’informazione perfetta del pianificatore ma spiana la strada al ricercatore sul campo che con una buona dose di serendipity si imbatte in circostanze inattese2, che possono svelare indizi di cambiamento nidificato o emergente. Secondo tale angolo di visuale, il ruolo delle scienze sociali non può che promuovere la continua verifica delle premesse tacite su cui si basano le politiche per esplorare nessi di causalità talvolta invisibili, ricorsivi, in continua evoluzione con l’ambiente e le sue caratteristiche più salienti. L’uso ‘illuminante’ di tale corpo di conoscenze, per lo più empiriche, può nel tempo influenzare i processi decisionali e le capacità di programmazione degli amministratori, ma è da escludere la sistematica e – forse velleitaria – ‘re-ingegnerizzazione’ dei programmi per garantire il cambiamento desiderato in ogni circostanza (Weiss, 1977, 1979). Il resto dell’articolo è organizzato nel modo seguente. Il primo paragrafo ricostruisce le riflessioni di Lindblom e di Hirschman sul contributo teorico-analitico delle scienze sociali ai processi decisionali. Entrambi gli autori si allontanano dall’approccio della razionalità sinottica per giungere, però, a conclusioni differenti. Il secondo paragrafo, accosta la diade hirschmaninana del trait-taking/trait-making ai recenti approcci basati sui meccanismi di cambiamento secondo le analisi di Pawson (2001, 2006, 2013), Pawson e Tilly (1997) e Elster (1998). Il terzo paragrafo sviluppa le dimensioni salienti dell’approccio della complessità richiamando i contributi più rilevanti dei nostri autori. Il quarto paragrafo presenta alcune note conclusive.
 
1. L’arte del progettare: dall’incrementalismo di Lindblom al possibilismo di Hirschman
Come può un amministratore sapere se ha adottato una decisione saggia se analisti e valutatori non hanno generato conoscenze utili a giudicare il merito delle decisioni assunte? E…ai valutatori e agli analisti delle politiche pubbliche è richiesto di prefigurare misure risolutive dei problemi che affliggono la società moderna o, diversamente, essi sono chiamati a verificare ciò che è realizzabile rispetto alle condizioni socioeconomiche, politiche e istituzionali vigenti nel momento storico in cui operano? In altri termini, per formulare una politica che intende generare un cambiamento dello status quo, bisogna osare soluzioni rivoluzionarie o proporre riforme moderate, adattive e graduali? Negli anni Sessanta, Charles Lindblom e Albert Hirschman si ponevano proprio questi interrogativi – straordinariamente rilevanti ancora oggi. La risposta di Lindblom era, a quei tempi, scettica sulle possibilità che le scienze sociali potessero aiutare i decisori a formulare politiche capaci di affrontare i problemi socioeconomici esistenti. Secondo Lindblom (1959, 1992), la discrepanza tra la capacità di risolvere i problemi e la complessità dei problemi da risolvere è ‘tragica’. Dobbiamo fare i conti con informazioni insufficienti e inconcludenti, per cui il compito dei valutatori e degli analisti non è tanto quello di venire a capo della verità, ma di contribuire a formulare decisioni ragionevoli in circostanze in cui la verità non è né esaustiva né scientificamente provata. Lindblom (1992) fa luce sui molteplici ostacoli che impediscono la risoluzione dei problemi sociali moderni, coniando ironicamente l’espressione di ‘incompetenza acquisita’. Le tecniche analitiche di pianificazione strategica e di valutazione possono, paradossalmente, indurci nell’errore di ‘vedere’ nelle esperienze osservate solo le prove che corroborano le nostre ipotesi preconcette. Casi di uso improprio o manipolativo delle analisi valutative secondo l’espressione inglese “the model fit the data” sono, infatti, innumerevoli3 (Henry, 2000), mentre la capacità di accompagnare opportunamente i processi decisionali è apparentemente poco frequente, secondo la vasta letteratura sull’utilizzo della valutazione (Weiss, 1977, 1979; Kirkhart, 2000; Henry, 2000; Marra, 2000; Marra 2004a). Opponendosi alla fallacia della scelta razionale, Lindbom (1959) ricostruisce, a partire dalla descrizione empirica delle pratiche amministrative, l’approccio noto come il Branch Method, vale a dire, il procedere dei manager, dei decisori e dei politici attraverso confronti limitati e ricorsivi, cercando di ‘cavarsela’ – nell’espressione inglese muddling through. Secondo tale impostazione, è possibile intervenire nel disegno delle politiche pubbliche attraverso continui aggiustamenti iterativi. Raramente le nuove politiche proposte sono radicalmente differenti da quelle precedenti. Gli amministratori, sia nel settore pubblico, che nel settore privato, tendono a formulare misure di policy nel solco delle politiche già avviate, modificando le soluzioni proposte in modo incrementale in un continuo processo evolutivo (Lindblom, 1959). Lindblom rigetta l’illusione razionalistica che si possa pianificare e valutare con completezza di informazioni e conoscenza perfetta delle condizioni di partenza e dei processi di evoluzione (Lindblom, 1959; Crozier e Friedberg, 1981). L’autore contrappone il Root Method al Brach Method, come illustrato nella tabella 1, qui di seguito.
Tabella 1 – Approcci RooteBranchall’analisi delle politiche pubbliche (1959)

Razionalità sinottica (Root-Method) Confronti limitati e ricorsivi (Branch-Method)
Chiarificazione dei valori e degli obiettivi considerati come prerequisiti dell’analisi empirica delle alternative di politica pubblica. La scelta degli obiettivi e l’analisi empirica delle azioni necessarie non sono momenti distinti l’uno dall’altro ma sono intrinsecamente legati.
La formulazione di una politica è un approccio basato sull’analisi mezzi-fini. In primo luogo, si isolano i fini, in seguito i mezzi adeguati per raggiungerli. Poiché i mezzi e i fini non sono distinti, l’analisi basata sui mezzi e sui fini non è appropriata, anzi potrebbe essere particolarmente limitata se non controproducente.
La verifica di una buona politica è legata all’esistenza di prove empiriche che dimostrano i nessi tra i mezzi e gli obiettivi desiderati. La verifica di una buona politica è legata al consenso che vari analisi riescono ad aggregare rispetto a specifiche soluzioni di politica pubblica. Senza trovare l’accordo sugli strumenti da adottare la politica non esiste.
L’analisi è esaustiva; si prendono in considerazione i fattori più rilevanti. L’analisi delle politiche pubbliche è drasticamente limitata:
i)        è possibile che esiti importanti delle politiche siano trascurati
ii)      è possibile che politiche alternative siano trascurate
iii)     è possibile che i valori che sottendono le politiche pubbliche siano trascurati.

Fonte: Lindblom (1959), trad. mia.
 
Nel formulare obiettivi di cambiamento, la principale differenza tra i due metodi risiede nel fatto che la complessità dei problemi socioeconomici da affrontare rende – secondo Lindblom (1959) – l’approccio razionalistico impraticabile e politicamente irrilevante mentre l’approccio incrementale possibile e pertinente. Lindblom (1959) sostiene, infatti, che il metodo Branch è alla portata del manager o del valutatore, i quali non sono chiamati a analizzare tutte le possibili alternative alle politiche proposte né le loro differenze al margine, ma devono, piuttosto, concentrarsi solo su quelle soluzioni che emergono da una ‘successione di confronti’(Lindblom, 1959: 81, trad. mia) all’interno di un numero limitato di opzioni. Se la teoria è importante nel metodo razionale, nel metodo decisionale incrementale, l’analisi è orientata al processo. Ne segue che la bontà di una decisione è legata non tanto all’esistenza di prove scientifiche a sostegno di quel corso d’azione, ma al raggiungimento di un elevato grado di consenso tra analisti, valutatori, attori e decisori, che condividono e accettano una determinata misura o soluzione organizzativa in un determinato contesto. Nel metodo Root, la decisione viene normalmente schematizzata come rapporto mezzi-fini: i mezzi sono scelti e giudicati rispetto ai fini, i quali sono indipendenti e formulati precedentemente alla selezione degli strumenti. Tuttavia, un rapporto lineare mezzi-fini è possibile solo nella misura in cui le preferenze valoriali sono condivise, condivisibili e stabili nel tempo – un’ipotesi in verità poco realistica in condizioni di elevata incertezza politica e socioeconomica in generale. Diversamente, nel metodo Branch, i mezzi e i fini sono scelti simultaneamente. Nel metodo dei confronti ricorsivi e incrementali, l’esigenza di indagare le preferenze e gli obiettivi delle politiche viene limitata dalla natura talora confusa e intricata dei processi decisionali. Secondo Lindblom (1959), ciò non significa che la politica sia priva di razionalità o che essa sia caratterizzata da irrazionalità. La logica della politica4 è rinvenibile nelle percezioni e nelle opinioni degli attori che esprimono differenze significative nel modo in cui descrivono i problemi da affrontare, articolano le proprie motivazioni e giustificano i propri comportamenti. La scienza del ‘cavarsela’ suggerisce, allora,la possibilità di far avanzare processi di cambiamento graduali in un universo in cui la razionalità umana è limitata (Simon, 1957) e le decisioni sono eminentemente politiche, non basate sulla cogente logica oggettiva dei fatti, delle prove e delle informazioni raccolte. Nel processo di policy making, la razionalità è incrementalista e per questo motivo -secondo Lindblom (1959) – preferibile rispetto alla razionalità sinottica perché è compatibile con un sistema aperto e pluralistico. In tale contesto,i programmi si giustificano sì in base alla loro rilevanza politica, ma sono, nello stesso tempo, radicati nelle conoscenze sedimentate nel tempo e nelle informazioni detenute dai membri dell’amministrazione e dagli attori coinvolti nel sistema (Wandling 2010). In siffatte circostanze, quale contributo può offrire la scienza sociale e in particolare la valutazione delle politiche pubbliche per migliorare gli interventi finalizzati alla risoluzione dei problemi sociali? Nel 1992, Lindblom ritorna su questo punto, sostenendo che la scienza sociale può fornire consulenza politica utile, ma mette nuovamente in guardia contro i potenziali effetti distorsivi a causa di una visione troppo ristretta di ciò che si definisce metodo scientifico, sempre più finalizzato a ‘dimostrare’ piuttosto che a ‘esplorare’. Le conclusioni di Lindblom sono in verità ambigue: da un lato, le scienze sociali possono generare conoscenza utilizzabile dalla politica, nell’aspirazione di mettere ordine nei caotici processi decisionali. Dall’altro, poiché la politica procede attraverso progressi incrementali, le comparazioni successive e limitate precludono immagini di cambiamento radicale, di ampia portata, in tempi e condizioni relativamente incerti. L’analista o il valutatore possono prefigurare forme di cambiamento anche di natura sostanziale, ma la realtà di regola li riconduce a più miti pretese…al cospetto di processi graduali che progrediscono tra mille difficoltà. Osservando i progetti di sviluppo nel corso degli anni Sessanta, Hirschman condivide le premesse di Lindblom, ma giunge a conclusioni differenti. Secondo Hirschman (1958, 1967), la progettazione può dispiegarsi secondo un approccio trait-taking o trait-making. Il primo assume le caratteristiche contestuali come date e nel verificare le carenze esistenti propone interventi migliorativi ma non particolarmente incisivi. Il secondo approccio mira a cambiare sostanzialmente i tratti del contesto che agiscono come freno allo sviluppo. Anche Hirschman (1967) affronta la questione del disegno del progetto o, meglio, il dilemma della politica. L’autore si domanda se, nel progettare nuove realizzazioni, l’analista è chiamato a sospingere il sistema in cui interviene verso il mutamento delle caratteristiche (traits) dello status quo e quindi punta a creare le nuove caratteristiche desiderate (trait-making). Altrimenti, l’analista deve considerare non mutabili, nell’orizzonte temporale considerato, alcune caratteristiche cruciali, accettarle e incorporarle nella progettazione (trait-taking). Nelle parole di Hirschman:the project may therefore be said to act at the same time as trait-taker and as trait-maker: the decision which traits to take, that is, to accept (because they are considered unchangeable) and which ones to make (by changing existing or creating new traits) is crucial to project design and success (Hirschman, 1967, p.131). Il dilemma della politicaè, dunque, la capacità di gestire i possibili rischi di fallimento di un programma o a causa di un’irrealistica fuga in avanti, nell’ipotesi di drastici cambiamenti che all’atto pratico non si manifestano, o a causa di una rinuncia al cambiamento. Considerare gli attributi negativi dello status quo come immutabili e inevitabili può indurre a scegliere soluzioni che in seguito possono rivelarsi inefficaci, futili o addirittura controproducenti. In buona sostanza, si possono perdere le opportunità di sviluppo, rafforzando proprio le caratteristiche sfavorevoli del contesto (trait-reinforcing). I risultati del progetto saranno, quindi, di gran lunga inferiori rispetto a quelli pianificati e gli analisti saranno tacciati di non avere immaginazione o di non credere nel cambiamento. Diversamente, se il programma è ambizioso e teso a incidere sul contesto, l’esito sarà una scommessa: se la scommessa è persa e il cambiamento atteso non si materializza, gli analisti saranno accusati di aver ignorato o travisatole norme sociali e la struttura socio-politico-economica locale,mostrando ingenuità incorreggibili e mancanza di realismo (Hirschman, 1967). Hirschman (1958, 1967), tuttavia, ha una visione dinamica del processo decisionale e delle risorse su cui esso si basa. Invece di considerare le risorse come ‘date’, egli ritiene che sia possibile mobilitare e arruolare capacità nascoste, disperse, male utilizzate (Hirschman, 1958). Attraverso la presenza o la costruzione di meccanismi di pressione, l’autore ritiene che sia possibile stimolare e formare abilità apparentemente irrilevanti e risorse ancora improduttive. Queste ultime non sono un vincolo oggettivo all’allocazione ottimale. Piuttosto, se l’analista esplora il contesto e si ingegna a sfruttare le opportunità che gli si profilano dinanzi (Hirschman 1971, 63-78; Lindblom 1959, 79-89), la creatività diventa la risorsa sorprendentemente più importante per ‘cavarsela’, per superare gli ostacoli che si fra
ppongono al cambiamento. Hirschman (1967) afferma che:
Creativity always comes as a surprise to us; therefore we can never count on it and we dare not believe in it until it has happened. In other words, we would not consciously engage upon tasks those success clearly requires that creativity be forthcoming. Hence, the only way in which we can bring our creative resources fully into play is by misjudging the nature of the task, by presenting it to ourselves as more routine, simple, undemanding of genuine creativity than it will turn out to be. Or, put differently: since we necessarily underestimate our creativity, it is desirable that we underestimate to a roughly similar extent the difficulties of the tasks we face so as to be tricked by these two offsetting underestimates into undertaking tasks that we can, but otherwise would not dare, tackle. The principle is important enough to deserve a name: since we are apparently on the trail here of some sort of invisible or hidden hand that beneficially hides difficulties from us, I propose the Hiding Hand.” (Hirschman, 1967: 13)
Gestire il dilemma della politica, secondo Hirschman (1967), vuol dire, quindi, non cadere nella trappola dell’eccessivo realismo e rinunciare a proporsi i necessari cambiamenti, sempre possibili e, nello stesso tempo, non illudersi che il cambiamento possa intervenire solo perché progettato o finanziato, senza essere effettivamente ‘digerito’dalla realtà in cui è calato. A differenza dell’incrementalismo di Lindblom, in cui prevale una visione realista delle possibilità di cambiamento, Hirschman propone un approccio possibilista, in cui il cambiamento è perseguito nonostante le difficoltà del contesto, in cui possono aprirsi varchi insperati se la creatività e l’ingegno riescono a guidare gli sforzi dell’analista, del manager o del politico. In disaccordo con Lindblom, Hirschman (1990) sostiene, infatti, che esiste frequentemente un contrasto tra la realtà e l’immagine largamente coltivata della realtà medesima, un clima intellettuale e politico, come quello sviluppatosi negli anni Sessanta negli Stati Uniti, in cui, nota l’autore:
per effetto di una esperienza positiva del gradualismo, sembra essere divenuta maggioritaria la conclusione (infondata) che qualunque cambiamento in senso progressista, di qualsivoglia specie, può e deve essere ottenuto esclusivamente mediante una successione di riforme moderate, oppure non sarà ottenuto affatto. Questa visione delle cose può essere altrettanto illusoria dell’opposta convinzione di molti latinoamericani che qualunque cambiamento ‘reale’ può essere soltanto il frutto della rivoluzione” (Hirschman, 1990: 166).
Hirschman non cade nella contraddizione di Lindblom secondo cui gli analisti e i valutatori, evitando illusioni razionalistiche, sono sì in grado di affrontare le sfide dei gravi problemi che ci assillano, facendo mettendo a frutto il loro sapere. Essi, però, devono fare i conti con la complessità delle arene politiche, delle organizzazioni amministrative e dei contesti socioeconomici che operano secondo logiche incrementaliste. Nella visione dinamica e possibilista di Hirschman, anche nei contesti dove non esistono le condizioni per lo sviluppo, nuove abilità e risorse si possono formare attraverso processi di apprendimento graduali e/o repentini. Come già accennato, il cambiamento non deve essere solo di natura incrementale. Ad esempio—nota Hirschman (1967)— l’assegnazione di incarichi per merito piuttosto che sulla base di affinità politiche, familiari, tribali o religiose non è un meccanismo che si apprende gradualmente come l’apprendimento di una competenza o di una lingua. Cruciale è la figura del reform-monger (Hirschman, 1985), che nell’espressione coniata da Hirschman stesso, è chi è capace non solo di immaginare il cambiamento rispetto alle condizioni del contesto, ma è anche in grado di perseguire il cambiamento imparando a sperimentare stratagemmi utili per far passare le riforme (Hirschman, 1990). Nel prossimo paragrafo, mi soffermo sui ‘meccanismi di cambiamento’.
 
2. Il trait-making-cum-importing come meccanismo sociale causale e costitutivo
In un ulteriore approfondimento del concetto del trait-taking, Hirschman (1967) delinea la situazione in cui sembrano mancare le caratteristiche richieste dal progetto in termini di skill e input e profila una particolare configurazione di trait-taking: quella per cui le competenze richieste vengono importate, ad esempio, da regioni vicine più avanzate. Questo processo, se non gestito correttamente, può risultare dannoso in quanto suscettibile di approfondire la subordinazione delle risorse preesistenti e la loro mancata emancipazione. È possibile, d’altro canto, in alcuni processi produttivi e in presenza di potenzialità di base5, che tale approccio si riveli capace di generare, attraverso l’imitazione e l’apprendimento, la rapida formazione di risorse locali. In tal caso, si ha una configurazionetrait-takingche conduce ad una configurazionetrait- making (Hirschman, 1967: 132 e 133). Ad esempio, l’acquisizione di competenze, tecniche e strumenti manageriali esterni ad un’organizzazione burocratica permettono di attivare un processo trait-taking cum importing che può condurre alla formazione di abilità amministrative interne più produttive. Oppure i progetti ricerca e sviluppo possono sviluppare processi di apprendimento di competenze tecnologiche e/o scientifiche attraverso forme di ‘tutoring esterno’. L’apprendimento si genera nell’interazione tra tratti del contesto esistenti e risorse importate temporaneamente. Le energie locali interagiscono con le risorse esterne e in tal modo si possono superare condizioni di isolamento e segmentazione nonché la chiusura autoreferenziale di gruppi sociali e comunità politiche, scientifiche, produttive o amministrative. La dinamica visione hirschmaniana che considera i programmi capaci in gradi diversi di attivare apprendimento e sviluppo nel tempo è compatibile con l’approccio di analisi e valutazione basato sui meccanismi sociali che fa capo a Elster (1998) e Pawson e Tilly (1997) Pawson (2001, 2006, 2013). Secondo tale impianto metodologico-concettuale, le politiche pubbliche sono sistemi complessi e stratificati, all’internodi una più ampia cornice politico-istituzionale che ingloba meccanismi sociali multi-livello. L’espressione ‘meccanismi sociali’ si riferisce a processi che generano un risultato specifico non necessariamente generalizzabile. Elster (1998) definisce i meccanismi come quelle relazioni causali che hanno luogo frequentemente e sono innescate in condizioni generalmente ignote con conseguenze indeterminate (trad. mia). Elster (1998) distingue tra meccanismi di tipo A e meccanismi di tipo B. Nei meccanismi di tipo A, è indeterminatala catena di causalità per cui non è possibile anticipare il meccanismo che sarà effettivamente attivato. I meccanismi di tipo B possono suscitare catene di causazione in direzione opposta per cui non è possibile predire l’effetto netto. Ad esempio, uno shock ambientale può dar luogo a reazioni di fuga, paralisi o attacco, che sono tra di loro ben distinte e di fatto incompatibili. Elster (1998) fa riferimento, inoltre, all’effetto dotazione e all’effetto contrasto, all’effetto compensazione e all’effetto spiazzamento, all’effetto piacere e all’effetto dolore, nonché alle euristiche della rappresentatività teorizzate da Khaneman e Tversky (1979) che alterano le aspettative rispetto ai benefici e ai costi attesi6. Ad esempio, il meccanismo della fallacia dello scommettitore spiega perché aumenta la sua aspettativa di vincere dopo una serie di scommesse perse. L’euristica della rappresentatività predice, infatti, che i giocatori aumentano le scommesse in seguito a puntate con esito fallimentare, in quanto essi si attendono di vincere. Di contro, i giocatori diminuiscono le loro scommesse in seguito a puntate con esito vincente. In tale circostanza, perdere diventa l’unico esito disponibile atteso che rischia di sovrastimare le effettive probabilità di perdere. E la Prospect Theory di Khaneman e Tversky (1979) ha molte affinità con il ben noto meccanismo della fracasomania, elaborato da Hirschman (1968) per stigmatizzare la mania del fallimento che affligge i paesi in via di sviluppo. La nozione di meccanismo è stata adottata anche da Pawson(2001) e Pawson e Tilley (1997) nella valutazione realista. Pawson e Tilley (1997) mettono a confronto teorie ‘positiviste’ o ‘successioniste’ rispetto a teorie ‘generative’ sulla causalità,sottolineando come i metodi sperimentali non prendono in considerazione la ricchezza e l’eterogeneità dei contesti. In tali contesti, i risultati emergono non tanto per effetto dei programmi ma come conseguenza dei meccanismi che si attivano o meno. È l’interrelazione tra contesti e meccanismi che genera i risultati mentre la valutazione spiega che cosa funziona, per chi e in quali circostanze e gli indicatori illuminano relazioni causali specifiche, contestuali, irripetibili (Marra, 2010b). I punti di contatto tra le analisi di Hirschman, Lindblom, Pawson e Tilley e Elster sono più numerosi di quanto si possa credere. Essi abbandonano la nozione di causazione lineare per considerare una pluralità di fattori che agiscono in contesti differenziati. Una politica pubblica può attivare meccanismi simili con esiti potenzialmente divergenti. Risultati simili possono in principio scaturire dall’azione di meccanismi diversi. Le catene di causazione sono molteplici e le analisi condotte per attribuire le cause agli effetti osservati e per generalizzare gli effetti sono intrinsecamente limitate. Elster suggerisce un approccio disaggregato in sintonia con l’impianto micro-marxista hirschamaniano (1981). Per la valutazione delle politiche pubbliche, Elster (1998) propone l’individuazione di sottogruppi di beneficiari o target in cui indagare gli effetti attesi. Le politiche, infatti,possono decomporsi in meccanismi da esaminare rispetto a diverse unità di analisi. In verità, nell’approccio basato sui meccanismi, si possono esaminare due tipi di relazioni (i) le relazioni causali, tipiche delle analisi di Elster e di Pawson e Tilley; e (ii) le relazioni costitutive che sono verticali e organizzate gerarchicamente (Craver et al. 2001: 131). Tale distinzione (Craver e Betchel, 2007) è cruciale per comprendere le interazioni che i programmi intrattengono con i contesti in cui vengono calati. In primo luogo, le relazioni causali sono diacroniche mentre le relazioni costitutive sono sincroniche. I processi causali si svolgono nel tempo mentre le relazioni delle parti rispetto al sistema sono simultanee. In secondo luogo, le relazioni causali sono asimmetriche, mentre le relazioni costitutive sono simmetriche. Non solo la causa precede l’effetto, ma un cambiamento delle cause produce un cambiamento anche degli effetti. Diversamente, un cambiamento delle parti di un sistema produce un cambiamento del sistema nel suo complesso tanto quanto un cambiamento del sistema nel suo complesso genera un cambiamento delle sue varie parti. In terzo luogo, si assumespesso che le cause e gli effetti sono logicamente indipendenti, laddove le parti e il tutto sono dipendenti reciprocamente (Marra, 2010b). È del tutto evidente che il traittaking e il traitmaking possono essere intesi come meccanismi o coppie di meccanismi sociali multi-livello di natura ibrida – sia costitutiva che causale. Come precedentemente accennato, il trait-making può fare seguito al trait-taking o entrambi possono attivarsi simultaneamente in contesti differenti. I processi di causazione possono, quindi,essere decomposti in relazioni verticali e orizzontali, in cui le leve di cambiamento micro e macro si susseguono, coesistono e/o si armonizzano vicendevolmente. Ad esempio,nell’ambito della politica di coesione,attraverso il partenariato istituzionale e socioeconomico si formulano e si attuano interventi di sviluppo territoriale integrato a favore dell’occupazione, dell’inclusionesociale, per il sos
tegno alle imprese e la salvaguardia dell’ambiente. Il successo di un partenariato è legato a quell’insieme di meccanismi cognitivi, economici e motivazionali che riescono a suscitare e cementare il consenso tra i partecipanti a prescindere dalla loro numerosità (Marra, 2010b). Il meccanismo del consenso esprime la relazione causale secondo cui progettare in maniera cooperativa iniziative di sviluppo aumenta le possibilità di intraprendere azioni coerenti con le vocazioni del territorio. Il meccanismo del ‘consenso’ è anche una relazione costitutiva del sistema di interventi per lo sviluppo regionale: se viene meno il consenso rispetto alle iniziative territoriali, muta anche la strategia regionale e se muta la strategia regionale si trasformano anche le misure rispetto a cui si coagula il consenso a livello locale. Il meccanismo in esame è, quindi, multilivelloe ibrido: esso genera relazioni causali micro e sostanzia elementi micro, meso e macro del più ampio sistema della politica di sviluppo regionale.
 
3. Le complessità nei programmi e nei contesti
Le conclusioni di Lindblom sulla natura incrementale del cambiamento e le riflessioni sull’apprendimento di Hirschman puntano l’attenzione degli analisti e dei valutatori sui processi di cambiamento di sistemi complessi in cui programmi e contesti co-evolvono nel tempo. Secondo tale prospettiva,il cambiamento desiderato può avvenire in maniera graduale, non avverarsi affatto a causa di una mancata reazione alle pressioni ambientali (eccessivo trait-taking), di un’inadeguata gestione delle risorse soggettive e relazionali del contesto (oltre a quelle economico-finanziarie), per il debole apprendimento nella capacità di programmazione secondo le vocazioni produttive dei territori (impostazione razionalistica della programmazione, secondo il Root Method)e la ridotta acquisizione e diffusione di strumenti di analisi e valutazione utili a monitorare il rendimento organizzativo e istituzionale — l’incapacità secondo Lindblom (1959) di condurre analisi empiriche (v. anche Sabel, 1994). Adottando il lessico della teoria della complessità, le opportunità di cambiamento sono, quindi, legate a dimensioni ‘processuali’ di natura evolutiva che provo qui di seguito a puntualizzare.
Adattamento. Le trasformazioni politico-istituzionali e amministrative sono processi adattivi che influenzano e vengono influenzate a loro volta dai processi socioeconomici. Le relazioni tra le istituzioni (e le organizzazioni) sono di notevole complessità, di frequente improntate ad una visione verticale e gerarchica (Scharpf, 1994), che riduce gli spazi dell’iniziativa e della leadership diffusa territoriale. L’accentramento delle funzioni amministrative è il riflesso della debole capacità di coordinamento delle istituzioni locali se non l’esito dei continui conflitti inter-istituzionali. In tali circostanze, Lindblom suggerirebbe di sviluppare competenze di policy analysis per garantire il pluralismo delle posizioni anche all’interno di singole agenzie, il confronto delle idee e il decentramento del potere decisionale. Hirschman, piuttosto che dismettere tout court l’approccio trait-taking per accogliere visioni più rivoluzionarie, valuterebbe la capacità di tolleranza del sistema alle prestazioni scadenti, sottolineando la necessità di innescare meccanismi di reazione al rilassamento in relazione a diversi gradi di libertà esistenti. In tal senso, rafforzare processi di emancipazione sociale e capacity building delle istituzioni potrebbe assicurare il confronto tra i saperi esperti e saperi taciti al fine di rendere operativo l’esercizio della responsabilità per il rendimento organizzativo. L’idea potrebbe essere quella di un’organizzazione a rete, in cui diversi attori – sia pubblici che privati – ‘si sorveglino’ reciprocamente nell’elaborazione, nella proposta, nell’attuazione e nella valutazione delle azioni di sviluppo (Sabel, 1994).
Auto-organizzazione. Nei contesti più depressi, la percezione largamente condivisa sembra convergere intorno all’immagine di un’amministrazione opaca, ingiusta, corrotta e refrattaria a cogliere e assecondare le esigenze dei cittadini e delle imprese. Cambiare le pratiche dell’amministrazione locale richiede saperi contestuali, competenze tecniche e passione per il cambiamento in modo da rafforzare responsabilità e iniziativa dal basso. Anche in questo caso occorrerebbe, parafrasando Hirschman, contemperare meccanismi trait-taking con misure più incisive trait-making puntando sulle motivazioni che guidano gli attori. Essi perseguono strategie complesse la cui razionalità non si riduce nell’immediata valutazione dei costi e benefici. Da questa attenzione —intepretativista (Bevir, 2011)— per le percezioni e le motivazioni degli attori scaturisce l’opportunità di focalizzare l’attenzione, come suggeriscono sia Lindblom e Hirschman, non tanto sui rapporti formali e sui fattori oggettivi, quanto sulle relazioni informali, soggettive, politiche e culturali.
Emergenza. Il reform-mongeringhirschmaniano non è un processo standardizzabile, ma la capacità di instaurare un sistema di relazioni di mutuo aggiustamento emergente tra istituzioni, gruppi sociali e reti. Non solo politici e amministratori possono portare avanti le riforme, ma anche gli attori del privato e le forze attive della società civile. I diversi protagonisti del cambiamento, con lungimiranza e resilienza, possono fare leva sull’autonomia decisionale, sull’iniziativa e la responsabilizzazione per costruire e rafforzare capacità organizzative e direzionali. Nelle situazioni in cui il cambiamento atteso è implicitamente trait-making, secondo Hirschman (1967) occorre uno sforzo analitico più intenso e sostenuto per ‘rivelare’gli aspetti e le dimensioni dei programmi che inducono trasformazioni radicali dei tratti del contesto. L’obiettivo consiste nel padroneggiare i processi, sensibilizzando gli attori coinvolti. La coscienza di contribuire ad un profondo processo di rinnovamento può, infatti, accelerare il cambiamento suscitando un maggiore senso di titolarità e responsabilità.
Radicamento. Le espressioni culturali, i valori e le persuasioni politiche si sedimentano nel tempo e co-evolvono con i bisogni e le pressioni del contesto. Preminenti diventano le interazioni nel tempo e nello spazio tra ambiente naturale, ambiente costruito e ambiente antropico, ovvero cultura, natura e storia, in cui rintracciare dinamiche demografiche, socio-produttive e politico-istituzionali. Il contesto diventa allora il luogo in cui mobilitare risorse nascoste, disperse e mal utilizzate, nelle relazioni umane, nei processi produttivi, nelle interazioni sociali, in cui i saperi e le competenze si tramandano e si rinnovano nel tempo. A vari livelli di analisi, i meccanismi di cambiamento si radicano nelle relazioni di cooperazione tra gli attori, le istituzioni e gruppi sociali che possono generare tanto miglioramenti nelle condizioni materiali e ambientali quanto nelle forme concrete di libertà individuale e sociale godute contro asservimento e subordinazione. Nel tempo, comportamenti responsabili micro possono generare trasformazioni sociali, economiche e territoriali in grado di rimodellare il sistema politico e amministrativo verso forme democratiche compatibili con le esigenze di sviluppo e libertà.
 
4. Note conclusive
Le complesse politiche pubbliche dei nostri tempi mettono alla prova le capacità metodologiche dei valutatori e degli analisti nel saper intercettare il cambiamento (Rogers, 2008, 2011; Marra, 2011). Le analisi sinottiche e razionalistiche non si sono finora rivelate capaci e ancor di più utili a orientare la politica e le politiche pubbliche. Diversamente, analisti e valutatori possono contribuire a migliorare le politiche e la politica ricostruendo i meccanismi e le motivazioni che muovono gli attori, i gruppi e le istituzioni nei contesti di riferimento. Si tratta di sviluppare analisi in grado di ‘far emergere’ come, perché e in quali circostanze i programmi generano risultati rilevanti per gli stakeholders. Ciò non significa rinunciare all’esame puntuale dei dati né alla formulazione di giudizi informati e spassionati sui successi e sui fallimenti delle politiche. Gli approcci legati al paradigma della complessità (Marra, 2011a, 2011b) abbandonano l’impostazione lineare del rapporto mezzi-fini per affrontare la complessità delle relazioni causali. Nell’impostazione realista à la Pawson e Tilley oppure nell’impianto proposto da Elster, i meccanismi generano risultati diversi a seconda dei contesti. Secondo tale impostazione, che fa proprie le eredità cognitive più eterodosse del secolo scorso, le politiche pubbliche sono complessi sistemi evolutivi in cui intercettare relazioni sia di natura causale (asimmetriche, diacroniche e logicamente indipendenti) sia di natura costitutiva come parti di un tutto (simmetriche, simultanee e logicamente dipendenti). I meccanismi come rapporti ibridi – causali e costitutivi – consentono di esplorare diverse unità di analisi in modo da intercettare il cambiamento nelle componenti e negli effetti dei programmi. Lindblom e Hirschman, già nel secolo scorso,hanno richiamato l’attenzione degli analisti e dei valutatori sulla necessità di rendere utili le analisi valutative nelle varie arene politiche e amministrativo-istituzionali ove essi operano senza né cedere allo scientismo né cadere nel pressapochismo. Mentre Lindblom sottolinea la natura incrementale dei processi decisionali e la necessità di analisi empiriche che, abbandonando le velleitarie prescrizioni razionalistiche, siano in grado di coinvolgere gli attori che partecipano al processo decisionale, Hirschman punta l’attenzione sui processi di apprendimento, sui meccanismi di pressione e di stimolo per mobilitare le risorse oggettive e soggettive presenti nei contesti. Sono lezioni che hanno passato il test della storia…
 
Note
1 Carol H. Weiss (1977) inquadra questo dibattito nell’ambito della sociologia della conoscenza applicata; v. anche Weiss (1979), Si occupano del ruolo delle scienze sociali in relazione alle politiche pubbliche anche Lasswell, Rivlin, Parson, Kingdon, Press, Wildawsky, Sabatier ecc…
2 Le benedizioni mascherate secondo Hirschaman (1967).
3 Se solo pensiamo a tutte le analisi costi-benefici realizzate a favore o contro la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina…Altri casi a livello internazionali sono legati ad esempio agli interventi di costruzione di grandi infrastrutture come le dighe. V. Marra (2004a, 2004b).
4 In termini odierni, la teoria del programma…
5Nel gergo dell’economia dello sviluppo si parlerebbe di fattori di contesto di primo e secondo livello; v. Fujita, Krugman, Venables (2001).
6 I primi a mettere in questione la razionalità economica sono stati Khaneman e Tversky (1979) che focalizzano l’attenzione sui meccanismi come l’avversione al rischio o la sottovalutazione di eventi probabili che spiegano perché gli agenti associano costi maggiori a perdite poco probabili e benefici minori a più probabili vantaggi futuri.
 
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