L'ultimo Albert e l'Europa

L'ultimo Albert e l'Europa

di Luca Meldolesi
“Spendere meglio è possibile – così si concludeva il ragionamento dell’omonimo volume (1992, p. 135) – se gli italiani lo desiderano, se riescono a contagiarsi l’un l’altro del bisogno di viver meglio come collettività, se riescono a mettere in moto un processo interattivo tra sistema politico ed economico, tra amministrazione e società civile, che rafforzi vicendevolmente lo sviluppo economico e la democrazia. Tale risultato non è affatto certo. – aggiungevo riecheggiando alcuni brevi testi di Albert (di cui avevo curato la pubblicazione in italiano)1 – Si può avere un miglioramento economico senza un avanzamento politico e sociale, come si può avere l’uno a danno dell’altro (o viceversa). E si può avere anche il peggiore dei mondi possibili: un arretramento materiale e morale”.
E’ questa, per l’appunto, la spada di Damocle che, oltre vent’anni dopo, penzola purtroppo sulle nostre teste, più minacciosa che mai. Riusciremo finalmente ad uscire da quel maleficio, dal retaggio contemporaneo della destra e della sinistra italiane che affonda le proprie radici (come ho scritto in “Premessa”) nelle grandi tragedie politiche e sociali del secolo scorso?
E’ un interrogativo che porta con sé tre osservazioni (almeno).
Prima: che, essendo stata l’Italia la patria del fascismo e poi del più grande partito stalinista dell’Occidente, quel condizionamento di medio periodo s’è rivelato in pratica particolarmente coriaceo – nella Prima come nella Seconda Repubblica.
Seconda: che lo sgretolamento finalmente accelerato di quei punti di vista uniti e contrari (per dirla con un pizzico d’amara ironia dialettica), quel “cambiare pelle” dei due poli (come l’ha chiamato Fabrizio Galimberti su “Il Sole24ore” del 4 dicembre), può (e deve) spingerci a moltiplicare gli sforzi.
Terza: che, alla luce di tutto ciò, la nostra vicenda trascorsa (come quella, penso, di altri gruppi di persone del dissenso, su e giù per l’Italia) assume quasi i tratti dell’incredibile.
Perché non è certo usuale che un semplice professore d’una Università meridionale, pensando di avere le spalle coperte da un famoso “guru” apolide, abbia puntato tutto, per il riscatto del proprio Paese, sulla costruzione di una nuova cultura democratica del cambiamento sociale adatta alle nostre condizioni, e, contemporaneamente, sulla ricerca, sulla formazione e sull’affermazione di nuovi dirigenti nei diversi settori (privati, pubblici, e della cultura).
E che sia oggi in grado, dopo tanto tempo, di discutere di quell’esperienza con alcuni di questi nuovi dirigenti, ormai protagonisti sottotraccia della scena italiana, in un convegno in onore del nostro comune Maestro…
Ma l’Italia è anche un grande paese, per storia e per cultura, antico e giovane, fondatore dell’Occidente da un lato e dell’Europa contemporanea dall’altro. Spendere meglio che iniziava il suo tragitto da casa mia (Montepulciano di Siena), aveva puntato la sua prora sul governo centrale esul Mezzogiorno per concludersi, infine, a Bruxelles. Era, allora, un periodo di grande subbuglio a livello europeo: innanzitutto per l’unificazione tedesca, da cui Mitterand, Delors, Prodi, Ciampi ed altri europeisti prendevano spunto per proporre, anche come contrappeso, la costruzione dell’euro- zona. Albert Hirschman assecondava, con ogni probabilità, questi sforzi (anche perché – credo – ritenesse inevitabile l’ampliamento della Comunità, e perché considerava decisivo che la Germania rimanesse “addossata” all’Europa[2]). Ma si rendeva conto che la questione non poteva essere semplicemente regolata sul piano tecnico-economico.
Così, all’età di 75 anni, e dopo 57 d’assenza, era tornato a Berlino e si era accorto che, partecipando al dibattito uscita-voce che si era scatenato sull’interpretazione degli avvenimenti che avevano portato alla caduta del muro, sarebbe potuto rientrare nella vita culturale tedesca – cosa che gli riuscì perfettamente con “Exit, Voice, and the Fate of the German Democratic Republic”[3].
Il risultato fu che, a nostra volta, Nicoletta ed io venimmo trascinati a Berlino. Così nei primi anni Novanta, seguendo dappresso questo sorprendente exploit (intellettuale, storico, politico, culturale) di Albert, abbiamo preso parte, sia pur indirettamente, ad un profondo cambiamento che stava prendendo piede nel cuore dell’Europa, e che avrebbe prodotto conseguenze di grande rilievo, anche a distanza di tempo.
Ma, ad un certo punto, la tendenza ascendente (talvolta travolgente, come potemmo constatare di persona visitando la Nicolaichirche di Lipsia) innescata dalla caduta del muro, ebbe una battuta d’arresto; e l’entusiasmo svanì. Albert, di ritorno da un’escursione nei paesi dell’Est europeo, ci disse laconicamente: “ci vorrà del tempo” – un’affermazione che gelò all’improvviso la nostra impazienza. Spiegò allora al “Corriere della Sera” dell’8 novembre 1992, in margine alla sua “Lettura” de “Il Mulino” sul “destino” della RDT: “quelli dell’est hanno una loro identità culturale, una loro mentalità frutto di quarant’anni di totalitarismo. E qualche volta rimpiangono le rassicuranti ‘nicchie’ del vecchio regime. Si sentono a disagio nel capitalismo, dove uno deve muoversi per sopravvivere, e dove lo Stato non dà un messaggio ideologico chiaro, non indica una direzione di marcia”. E aggiunse, alludendo alle spinte xenofobe “lo scenario è molto oscuro”[4].
Oggi, tuttavia, il tempo è passato; l’unificazione tedesca è riuscita; e la situazione si è rasserenata. Ma si è verificata, d’altra parte, una profonda trasformazione strutturale mittel-europea (di cui vi ho parlato nelle mie lettere da, e di ritorno da, Berlino); e la Germania è diretta oggi da una Signora che viene dall’est[5]. Infine, l’euro zona, dopo un iniziale periodo di euforia, si trova attualmente -per i trattati sottoscritti e per le politiche perseguite – in evidenti difficoltà; l’europeismo d’autre fois è evaporato; l’Italia, insieme ad altri paesi mediterranei, si dibatte in condizioni serie.
Viene allora spontanea la domanda: cosa penserebbe Albert? Cosa farebbe? O piuttosto: cosa possiamo fare noi, riprendendo, alla nostra maniera, il suo punto di vista?
In primo luogo: penso che Hirschman non si scoraggerebbe. Cercherebbe di costruire a partire da ciò che abbiamo (L’Ue, l’euro-zona); e confermerebbe ciò che disse nel 1995[6]:
“Ciò di cui ci si può dispiacere è che essa [l’Europa] non abbia sviluppato un sentimento culturale sufficientemente forte tra i cittadini d’Europa. Si è insistito troppo sull’aspetto economico pensando che il resto sarebbe venuto da sé”. Siete d’accordo [allora] con Robert Schuman che diceva “se si dovesse ricominciare, inizierei dalla cultura”? – domandò l’intervistatore. “Sì, assolutamente”.
In altre parole, Albert, a mio avviso, avrebbe lavorato per far in modo che le diverse parti dell’Europa dell’est e dell’ovest si capissero e si collegassero di più tra loro. Avrebbe pensato che, a tal fine, il suo punto di vista e la sua opera potessero essere utili – come peraltro aveva cominciato a suggerire da tempo pubblicando i suoi libri nelle principali lingue europee (e lasciando poi ai suoi amici l’onore e l’onere di orientarsi come meglio credevano nelle diverse situazioni). E, pur combattendo da solo (come aveva sempre fatto fin dagli anni Quaranta del secolo scorso) Albert, a mio avviso, avrebbe anche sfruttato le sue doti di straordinario analista poliglotta per cercare di colmare egli stesso quel vuoto (magari riproponendo via via questa o quella parte dell’intero suo lavoro sub speciae auto-subversionis, com’era andato già facendo); e per incoraggiare altri a farlo. Ed, infine, avrebbe probabilmente stupito “tutti quanti” con qualche nuova “invenzione”.
Lo dico chiaramente: nonostante il nostro numero e la nostra esperienza, non credo che né io, né voi, cari amici, siamo in grado di seguire Albert su questa strada. Ma questo non significa rimanere a braccia conserte. Seguendo l’ispirazione che abbiamo sempre tratto dal lavoro di Eugenio Colorni e di Albert Hirschman, avremmo (e dunque avremo, almeno nelle intenzioni) un bel da fare anche a livello europeo. E’ quanto Nicoletta ed io, nel nostro piccolo, abbiamo cominciato a mettere in moto riaprendo il dossier Berlino. Perché la semplice verità è che non riusciremo probabilmente a superare l’impasse che si è prodotta a livello europeo se non riusciremo a varare, per gradi, ai più diversi livelli, un nuovo federalismo europeista, democratico…
 
 
 
 
1 Alludo a “A Defense of Possibilism” ed a “Notes on Consolidating Democracy in Latin America” (ora in AOH 1986, Cap. 8 e 9; tr. it. In AOH 1987 e 1990).
2[] “E’ assolutamente necessario – dichiarò, tra l’altro, a Parigi (“Evenement du jeudi” del 25 maggio 1995) – che l’Europa prosegua il suo cammino verso una più grande unità e mantenga la Germania addossata (addossée) ad essa”.
3[] “Avendo vissuto fuori della Germania per ben oltre mezzo secolo, – scrisse, infatti, nel suo Rapporto al Wissenschaftkolleg che lo ospitava sulle attività accademiche del 1990-91 – penso che i concetti [di uscita-voce] che ho elaborato potrebbero fornirmi un prezioso punto di ri-entro”. Così fu. Infatti questo saggio famoso, comparso inizialmente in tedesco in “Leviathan”, ricevette il premio 1992 della Fondazione Thyssen per il miglior articolo pubblicato da riviste di scienze sociali in lingua tedesca.
4[] HP box 75, f. 12. Nonostante ciò, Albert continuò la sua spola tra Princeton e Berlino. Scrisse un altro saggio di grande rilievo per un incontro a Dresda del novembre 1993 (“Social Conflicts as Pillar of Democratic Market Societies”, ora in AOH A Propensity to Self-Subversion, 1995; tr. it. 1995). Programmò con Wolf Lepenies un Colloque sulla sua opera a Berlino. Ma la sua caduta rovinosa sulle Alpi francesi dell’agosto 1995 ne impedì la realizzazione.
5[] Come è noto, la Signora Merkel ha avuto di recente un grande successo elettorale e, frustrando le tante speranze illusorie coltivate tra gli altri dal nostro Presidente del Consiglio, la coalizione con l’SPD che sta per dirigere seguirà fondamentalmente la sua politica europea – segno che quest’ultima corrisponde effettivamente alle passioni ed agli interessi del popolo tedesco (e di quelli dell’est e dell’ovest ad esso collegati).
6[]“Evenement du jeudi”, 25 maggio 1995.