Resistere per elevarsi

Resistere per elevarsi

Cari amici,

siamo nati e cresciuti in un mondo molto più stabile dell’attuale. Con la caduta del muro di Berlino sembrò stabilizzarsi ulteriormente. Ma era un’illusione. Infatti si stava gradualmente verificando una perdita progressiva di quella stabilità.

Accade così che le nostre abitudini siano messa a dura prova. Siamo condannati a rimpiangere la perduta stabilità (insieme alla gioventù) – potremmo domandarci ironicamente?

Sarebbe stupido – soprattutto per noi ribelli che quella stabilità postbellica l’abbiamo combattuta dalla parte di chi la subiva, soprattutto a partire dalla guerra del Vietnam…

D’altra parte, un atteggiamento nostalgico non ci servirebbe di certo di fronte al nuovo mondo in cui stiamo entrando; e che si delinea molto diverso da quello che avremmo desiderato.

Bisogna essere all’altezza del proprio tempo che è quello – l’ho già scritto del recentrage americano (dopo i disastri iracheni, afgani, siriani ecc.) e dell’emergere di una multipolarità di potenze nazionali grandi e medie.

L’invasione russa dell’Ucraina aveva creato un soprassalto che sembrava in grado di arginare quella slavina militare; ma a distanza di tempo ne siamo oggi meno sicuri (purtroppo!). Il massacro di ebrei inermi di Hamas ha aperto un secondo fronte massmediologo, nella quotidianità delle nostre stesse vite. Ci ha fatto riflettere sulla divaricazione crescente nel tempo tra l’esigenza doverosa della costruzione di uno stato e di un esercito del popolo ebraico e le politiche seguite dai suoi governi che si sono sempre più trasformate in pure e semplici operazioni militari fondate sulla Bibbia, fino a mettere in discussione l’amicizia (e la simpatia) di due miliardi di musulmani[1]. Ho capito finalmente perché numerosi amici ebrei, che magari avevano partecipato in passato alla costruzione di Israele, cercavano di cambiar discorso quando si alludeva ai loro governi. Per evitare – mi ha detto uno di loro – di guastarmi l’appetito…[2]

Queste due guerre, insieme alle tante guerricciole, imboscate, azioni violente in giro per il mondo ci parlano di una situazione generale in via di peggioramento che si riflette sugli ondeggiamenti interni alle democrazie occidentali, spesso in bilico tra accorpamenti e disintegrazioni, tra far quadrato e “ciascun per sé…”.

Cosa fare allora?

Elevarsi innanzitutto rispetto alla quotidianità, per capirne di più. Indagare a fondo cosa bolle in pentola in questo mondo multipolare, e nell’Occidente. Mettersi volta a volta nei panni delle diverse parti in causa, combattendo sul nascere la tendenza antropomorfa a pretendere che gli altri si comportino come noi. Interrogarsi come funziona un mondo multipolare instabile e pericolante. Tener sempre presente il pericolo della Terza guerra mondiale. Ricostruire a tal fine nella nostra mente i processi economici e politici di instabilità che hanno preceduto lo scoppio della Prima e della Seconda. (Personalmente, ho tratto giovamento dallo studio dei Cap. 2, 3 e 4 in Albert Hirschman Potenza nazionale e commercio estero, Bologna, Il Mulino, 1987).

Infine: provare ad intraprendere nel nostro piccolo qualcosa di utile per la stabilizzazione del sistema multipolare; ed in particolare a favore di alcune esigenze palmari che stanno emergendo.

Per spiegarmi, vorrei raccontarvi un aneddoto.

La recente lezione di Michael Woolcock (MW) all’Orientale di Napoli si è conclusa con una piccola discussione. Una studentessa, pensando indubbiamente al suo futuro, ha domandato quali opportunità di lavoro offre la cooperazione internazionale. MW ha risposto parlando di “tre porte” da aprire: quella dei grandi donors privati, quella dei piccoli donors (come sua madre) e quella delle istituzioni pubbliche (internazionali e nazionali). Bisogna aprire anche una quarta porta – mi sono permesso di aggiungere – quella della costruzione delle imprese e delle istituzioni (amministrative, politiche, educative, sanitarie ecc.) in loco.

Lì per lì è stata una battuta, una rivoluzione in un bicchier d’acqua. Ma, poi ripensandoci, mi pare che contenga un grano di verità che conviene portare alla luce. Nonostante i grandi sforzi di tanti ben intenzionati, anche la cooperazione internazionale è stata parte della stabilità del mondo che stiamo lasciandoci alle spalle. Oggi nel Global South, risentito nei confronti dell’Occidente imperialista americano (e sub-imperialista francese, inglese, belga ecc.), si mette in discussione una decolonizzazione che non ha condotto ai risultati sperati, la grande frammentazione che l’ha seguita, il vuoto pneumatico in cui altri penetrano (per via economica e/o militare) ecc.

Ebbene, non bisognerebbe “inventare” una nuova cooperazione, più adatta alle esigenze effettive dei paesi “emergenti”? Qualcosa che fosse più utile per loro, per noi e per tutti? Penso di sì. Penso che sia urgente delinearla come contenuto e come metodo. E penso inoltre che quanto stiamo facendo vada anche in quella direzione. Per la nostra presenza alla Banca Mondiale, per l’incontro con MW, doing development differently, l’Orientale ecc. Per il nostro lavoro “sudista”: nell’high tech, nelle aziende, nei comuni, nelle università. Per il nostro lavoro culturale.

Anche per questo (se riesco a capirmi) mi fa infuriare chi mena il can per l’aia – magari mettendo l’accento sui problemi demografici italiani (in un mondo che si sta avviando verso i dieci miliardi!), sullo spopolamento, sulla fuga dei giovani dal Mezzogiorno ecc. ecc. Naturalmente, sono disposto a discutere anche di questo[3]. Ma senza allarmismo, senza abbandonarsi al mero funzionamento del mercato, senza dare per spacciata la situazione,[4] e senza capovolgere l’ordine delle priorità. Perché altrimenti si rischia di perdere la battuta; di venir meno alle nostre idee ed al nostro importante contributo. In altre parole, non ne saremmo convinti neppure noi!

 Come sapete, l’idea è che, come zona intermedia (middle income) il Mezzogiorno può rappresentare un anello mancante di un più vasto cambiamento – nelle innovazioni, le aziende, le istituzioni, le università ecc..

Ma, per svolgerlo effettivamente quel compito, il Sud deve liberarsi del condizionamento culturale del Nord (per dirla in modo eufemistico). Deve teorizzare la propria diversità, almeno nei campi principali. Se la cosa riuscisse (magari favorita da una quinta colonna italiano/americana), essa potrebbe esser compresa da altri protagonisti…

Per questa ragione, Nicoletta ed io ci prepariamo a partire per Boston.

Auguri!

Luca

Tarquinia

9 dicembre 2023.

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[1] Di conseguenza – ho letto proprio oggi in Ouvertures sur l’Islam di Mohammed Arkoun, un noto prof. della Sorbona, Paris 1989 – “la prospettiva moderna della storia del Mondo Mediterraneo, aperta magistralmente da Fernand Braudel, è ancora lontana dall’affermarsi, tanto da parte occidentale, quanto da quella musulmana. Si sa a fino a che punto le lotte politiche, le guerre di religione non hanno cessato di dividere, di straziare i popoli rivieraschi di quel mare. Si può soltanto augurarsi che la guerra israelo-araba che ritarda ancora tanti progetti, iniziative ed evoluzioni, conoscerà presto un esito felice e definitivo, liberando infine le possibilità di ricomposizione di uno spazio culturale artificialmente frammentato.”
[2] Preciso: le forze armate israeliane rappresentano un popolo in armi. I suoi riservisti sono intervenuti recentemente contro l’imbarbarimento della democrazia di quel paese. Anche per questo, mi ha fatto male imparare dalla TV da un esperto militare svizzero che le forze armate israeliane, come quelle russe, non interpretano il diritto internazionale a favore dei civili durante la guerra al pari delle forze armate occidentali. In altre parole, ci eravamo illusi di aver data degna sepoltura al “vae victis” romano. Non è così, purtroppo!
[3] Preciso: da diversi punti di vista. Innanzitutto sono vecchio abbastanza per ricordare i manifesti contro i troppi figli – a via Urbana dove allora abitavo. Perché a nessuno viene in mente che il nostro è un caso di “overshooting”? Perché ben pochi si rendono conto che la piena emancipazione femminile richiede un cambiamento di comportamento da parte della popolazione maschile? E che solo in questo modo, un paese antico come il nostro può aspirare a un certo riequilibrio – anche facilitando la vita dei molti giovani del mondo che desiderano diventare italiani?
[4] Potrebbero ricordarsi ad esempio della bella canzone napoletana che recita: ”Si va a cercà a fortuna, si gira ‘o munno sano, ma quando spunta a luna….” E’ così: dobbiamo far funzionare l’attrattività del Sud – anche come passo necessario per impostare correttamente il lavoro con il Global South.