Bollettino n 3.3 Verso l’abisso III

Bollettino n 3.3 Verso l’abisso III

Verso l’abisso? (III)

Come dare un’idea (in una paginetta!) di un processo storico di grande spessore, che – faute de mieux – chiameremo di auto-concentrazione? 

Si manifesta per gradi, in ogni ambito, ma con numerose soste; per poi riprendere più oltre, sotto altre vesti, – cosicché spesso non lo si avverte nemmeno; e lo si coglie davvero soltanto in seguito, voltandosi a riflettere su ciò che è accaduto. 

L’unico modo è forse scegliere qualche “scampolo” che ho trovato, via via, illuminante.

Il primo. Qualche settimana fa, per attutire in qualche modo il massacro di Gaza, Jo Biden ha detto agli ebrei (israeliani e americani) ed al mondo intero che non bisogna farsi prendere dall’ira. Si riferiva probabilmente al comportamento degli Stati Uniti dopo il famoso “9/11” del 2001, quando il governo di Bush figlio decise di invadere l’Iraq e l’Afganistan: una forte spinta espansionistica che in seguito si rivelò ingiustificata, fallimentare… 

Non ha detto però il Presidente Biden che proprio da tali disastrosi maxi-eventi è iniziata a trasparire la tendenza delle FF.AA. americane a ritirarsi gradualmente. Essa ha cominciato ad affermarsi davvero con la Presidenza Obama che ha accolto sostanzialmente la richiesta popolare di minimizzare le perdite americane evitando loro, come si dice negli Stati Uniti, di “mettere gli stivali sul terreno”. 

Oggi sappiamo che (indirettamente) tale atteggiamento ha tarpato le ali alle primavere arabe, ha incoraggiato (spero in modo inconsapevole) l’espansione militare russa nel Caucaso, in Medio Oriente, nell’Africa Sub-sahariana; ed anche l’influenza regionale della teocrazia iraniana. 

Infine, due anni fa, lo zar Putin decise l’invasione dell’Ucraina. Sembrò, inizialmente, che avesse sbagliato i calcoli. Per l’orgogliosa, eroica resistenza degli ucraini che hanno messo loro, per l’appunto, “gli stivali sul terreno”; per il forte sostegno militare dell’Occidente; e per le sanzioni alla Russia. Ma oggi siamo meno certi che le cose stiano proprio così – soprattutto perché le divisioni interne degli Stati Uniti e di altri paesi hanno improvvisamente fatto crollare l’approvvigionamento di materiali militari all’Ucraina; perché gli interessi economici e strategici della Cina, dell’Iran, della Nord-Corea e perfino dell’India hanno vanificato in gran parte le sanzioni alla Russia; e perché, su tale situazione assai delicata, si è sovrapposta mediaticamente la crisi Hamas-Israele (cui tornerò nel prossimo Bollettino).

Vengo ad un secondo punto. Ho già scritto altrove che nell’epoca della sbornia neoclassica e della globalizzazione il Presidente Clinton aveva pensato, ad un certo punto, che la Cina avrebbe inevitabilmente imboccato la via della democrazia. Oggi, naturalmente, nessuno si ricorda neppure di quell’euforia mal riposta. Anche perché, invece, siamo entrati all’improvviso in epoca protezionista. Infatti, dopo una lunghissima fase dottrinaria ed assolutista dettata dal libero mercato, l’Amministrazione Trump ha imboccato la strada opposta (e l’Amministrazione Biden l’ha proseguita). Per questo sono andato a ri-studiare National Power di Albert Hirschman. Perché è un libro istruttivo per capire dove porta quella via tipicamente neo-mercantilista. Persino i ricchissimi maxi-gruppi, i “Magnifici Sette” (come oggi si dice), che avevano avuto finora un’ultra-esagerata libertà d’azione, hanno iniziato a preoccuparsi delle possibili interferenze delle autorità ed a porvi rimedio alla loro maniera finanziaria…

Eppure, tutto questo è solo una parte di quanto Nicoletta ed io abbiamo finito per scoprire venendo quest’anno negli Stati Uniti. 

Accenno così al mio terzo punto, che ha natura culturale e politica. Esso riguarda il pericoloso “balzo all’indietro” nel pensiero e nei comportamenti che si è verificato negli ultimi tempi; ma che solo ora Nicoletta ed io siamo riusciti a mettere a fuoco. 

A tal proposito abbiamo qualche scusante. Questo, infatti, è un paese che ha una grande tradizione individualista, isolazionista. Privilegia l’uscita sulla voce, le casette unifamiliari con giardinetto, le loro ricche collocazioni sub-urbane, le fughe dai centro-città (per prendere le distanze dai poveri e dai derelitti), il “votare con i piedi” – si diceva un tempo ecc… Ora, su tutto questo si è inserito Amazon e lo smart-working casalingo che riguarda il 20% della forza lavoro – quello (più) istruito …. 

Insomma non è facile capire da dove e come spira il vento dei comportamenti collettivi dietro le quinte del grande teatro americano. Eppure alla fine, collegando tra loro alcuni tasselli sociali dell’epoca del “recentrage” (ricentralizzazione) qualcosa è venuta fuori. Come spesso accade, si tratta di “reperti” in parte positivi ed in parte negativi. Da un lato i movimenti (mee-too, black-lives-matter, nativi, arcobaleno ecc.), dall’altro una specie di grande scoramento giovanile autoreferente. Pur essendo contraddittorie queste due spinte (se Nicoletta ed io non abbiamo avuto le traveggole) si sono fuse malamente ed hanno prodotto un crollo del pavimento che fino a quel momento tutto reggeva.

Il risultato è che il grande apparato universitario americano, con alla testa la famosa Ivy League, abituato a dominare, com’era, la cultura mondiale, ha accusato il colpo ed ha perso all’improvviso la sua baldanzosa sicurezza, il suo mordente. Alcuni docenti hanno abbandonato il campo scegliendo la pensione (che qui non è mai un obbligo); altri, più giovani, sono andati per il mondo cercando alternative; le direzioni universitarie svillaneggiate sono state sostituite (anche a ripetizione); i sistemi di ammissione sono stati discussi e ridiscussi – in un clima collettivo tutt’altro che sereno. Il solo fatto che si sia fatta avanti l’assurda (poi screditata) “cancel culture” – equivalente in realtà ad un immenso falò culturale per affermarne l’inverso – la dice lunga sul disorientamento e sull’irrequietezza di cui siamo stati involontari testimoni. 

Insomma, Paola C. (che di noi è quella più in contatto con giovani americani) ha ragione. E’ emersa, infatti, una mentalità brutalmente impiegatizia. Il livello è scaduto. Talvolta il merito è andato a farsi benedire. Il piacere dell’imparare è crollato. Studiare è diventato lavoro (e dunque da limitare al minimo). Si vuole apprendere solo quel poco che servirà a “sfangarsela” nel mercato, che naturalmente è onnipresente ad ha sempre ragione. Da dove viene tutto ciò? Probabilmente da una grande delusione. E’ come se volessero dirci queste/i giovani: il mondo non ci ama? Peggio per lui! E sotto questo braciere acceso potrebbe “covare” un desiderio (ancora espresso solo in parte) di prepotenza, di rivincita, di dominio…

Luca, u vecchju
(prosegue)

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[1] Soprannome azzeccato. Non solo perché esso si riferisce agli aspetti più brutali della storia russa prerivoluzionaria. Ma anche perché, etimologicamente Kzar (Cesare), lo accosta ai Reich tedeschi, agli imperatori del Sacro Romano Impero e quindi in definitiva ai più sanguinari ed impuniti imperatori romani…
[2] L’una e l’altro hanno dato il colpo di grazia ad alcune interlocuzioni umane, soprattutto a quelle casuali d’ogni giorno – come i piccoli acquisti e le quattro parole tra colleghi di lavoro.
[3] Nel bene e nel male – bisogna aggiungere. Perché il privilegio, lo snobismo, la pretenziosità della popolazione istruita, rispetto al resto erano (e sono) una caratteristica saliente della scena americana.
[4] Sembra quasi un balzo ne passato, quando i giovani americani denigravano la cultura (musicale, filosofica, letteraria, ecc.); pretendevano di parlare il loro slang dovunque e comunque; ed apparivano ai nostri occhi una sorta di eterni bambinoni…
[5] Anche perché “l’incomprensione del basso” (di cui ho parlato in B 3.1 e B 3.2), dopo aver caratterizzato la lunga fase espansiva della potenza americana (con relativa dispersione di risorse), ha finito per suggerire una sorta di “rifiuto del basso”, e quindi del mondo ingrato…
[6] Torni pure nella barbarie… I famosi “area studies” sono decaduti. Mi ha impressionato, ad esempio, che l’America Latina, un tempo argomento privilegiato della cultura e dei mass-media americani, sia oggi quasi scomparso dal dibattito (se non fosse per la discussione dolorosa sull’immigrazione da bloccare sul Rio Grande). Lo stesso si dica del bilinguismo – mentre la popolazione che parla spagnolo o portoghese ha ormai raggiunto negli Stati Uniti il 15%…
[7] Naturalmente, alcune di queste caratteristiche le avevo già intuite, osservando i nostri giovani che si perdono in chiacchiere e che vivono rannicchiati su sé stessi giocando con il cellulare. Ma avevo pensato che si trattasse di un semplice disorientamento. Non è così. E’ parte di un processo di auto-concentrazione che riguarda probabilmente l’intero Occidente (ed oltre!).