Bollettino n 3.5 Ponti

Bollettino n 3.5 Ponti

Ponti

Forse fin da ragazzo in Sicilia, ho pensato che, per contribuire a sollevare il nostro mondo, avrei avuto bisogno di un argano…

A tale scopo, Nicoletta ed io cercammo, ad un certo punto, di installarci in Inghilterra, poi in Francia, più tardi in Germania – senza successo.

La ragione era (ed è) che quelle grandi potenze nazionali europee accolgono (cum judicio) ella/egli, solo se accetta di essere cooptato al loro interno voltando le spalle al suo paese d’origine…

Per gli Stati Uniti è stato diverso.

Una costellazione di circostanze fortunate ci ha permesso di avviare una lunga collaborazione intellettuale che prosegue ancor oggi – anche quando Giovanni Arrighi, Marcello de Cecco ed Albert Hirschman che ci aiutarono in quel frangente sono scomparsi da tempo. 

Ma non è stata solo fortuna (ed olio di gomito). Insieme alla strada dello sviluppo, della democrazia federalista, della valutazione ecc., Nicoletta intravvide fin dall’inizio un secondo viottolo – quello degli italiani/americani (che oggi sono ormai americani/italiani) – a cui vorrei dedicare questo Bollettino.

“Partono i bastimenti per terre altrui lontane…” certo: fin dall’Unità d’Italia, per ragioni economiche e politiche. Nicoletta ed io ce ne siamo occupati saltuariamente in numerose occasioni degli emigrati italiani nei paesi anglosassoni. Abbiamo inseguito le loro problematiche perfino in Australia e in Canada. Abbiamo cercato di capire le fasi evolutive delle loro comunità, soprattutto le ultime: quella che chiameremo “sindacalistica”, quella “bassettiana”, e quella attuale, caratterizzata da un’apparente dispersione. 

Cosa abbiamo imparato? Che, per chi è interessato ad una robusta interazione intercontinentale, “il dire e il fare” messo in campo finora… non è sufficiente!

Mi riferisco innanzitutto all’epoca in cui il nostro governo ha ritenuto di considerare una parte significativa degli “italici” come cittadini italiani (appoggiando le loro iniziative di welfare, ammettendoli all’elezione di un gruppo di parlamentari, fornendo loro una pensioncina ecc.). E poi mi riferisco alla fase successiva, ispirata da Piero Basetti, nella quale il giornalista con doppio passaporto Niccolò d’Aquino (curando due tomi informativi al riguardo) sostenne che, anche se si disperdevano territorialmente e si elevavano di istruzione e di grado sociale, gli “italici” rimanevano comunque collegati tra loro tramite la comunicazione – le radio, i giornali, l’on line ecc. 

Perché in larga misura – mi domando – tutto questo si è perso per strada? Perché il Commonwealth italiano di cui parlava Bassetti non ha visto la luce? Perché, invece, secondo l’ultimo censimento americano, la componente dei cittadini Us di origine italiana sarebbe ridotta ad un piccolo 5%?  

Perché, a mio avviso, trascinati come al solito dal bisogno di visibilità e dalla smania di successo a breve, non si è capito approfonditamente come stano le cose, e non si è agito di conseguenza.

Colorni ed Hirschman mi hanno insegnato che le donne egli uomini sono soggetti desideranti e che quindi se si vuole capire “come stanno veramente le cose” bisogna “fare la tara” rispetto alle loro passioni ed ai loro interessi. Bisogna combattere senza requie le illusioni – nostre e loro. 

Purtroppo, di illusioni sul ritorno degli emigrati sono letteralmente lastricate le vicende appena accennate (e tante altre ad esse similari).

In quei modi – io credo – non si costruiscono ponti per sviluppare robuste interazioni intercontinentali.

E allora, invece di affiancare le ottimistiche uscite televisive di Bassetti (che pure hanno i loro meriti), preferisco lavorare sul versante opposto e mostrare come la piccola esperienza che il nostro Istituto ha sviluppato negli ultimi tempi con il Calandra Institute di New York può dare un’idea dell’ordine dei problemi da affrontare.

Li riassumerei così-

  • Ha ragione Tito: ci troviamo di fronte ad americani (australiani, canadesi, argentini, brasiliani ecc.) di origine italiana e/o amanti dell’Italia. Il primo passo è indubbiamente di informarsi sulle loro rispettive esperienze e di rispettarle con simpatia.
  • E’ necessario presentarsi bene, in modo inappuntabile e trasparente, per esser presi sul serio. Nel nostro caso: aver lavorato con l’Institute di Princeton e con l’MIT; avere alcune pubblicazioni in inglese ecc. 
  • Non dare nulla per scontato “alla paesana”. Bisogna avanzare le nostre esigenze (tipo la pubblicazione delle Opere Complete di Eugenio Colorni in inglese); e capire, per quanto è possibile, i loro desiderata culturali, politici, finanziari.
  • E’ bene procedere gradualmente, per passi successivi, lasciando che la qualità del lavoro e la sua puntualità creino fiducia reciproca.
  • Il nostro messaggio Colorni-Hirschman deve farsi avanti con cautela se vuole essere capito e diventare per gradi convincente.
  • Ad un certo punto, dobbiamo domandarci cosa possiamo fare noi per i nostri interlocutori, invece che loro per noi.
  • Se abbiamo intuito correttamente le loro passioni ed i loro interessi, allora verranno sorpresi dalle nostre proposte che rispondono ai loro desideri (come l’avvio di una collanina di contributi “italici” in italiano, o l’apertura futura attesa della Casina di Montepulciano ad incontri mediterranei ed intercontinentali).
  • Studiando il loro ambiente e la loro cultura italo-americana e americano-italiana riusciremo ad entrare di più nel loro mondo ed a studiare meglio le possibili interazioni.
  • Cadranno allora le loro riserve (soprattutto su alcuni stereotipi anti-meridionali duri a morire) ed il lavoro interattivo intercontinentale potrà prendere slancio incorporando anche al suo interno “il nostro Mezzogiorno”.
  • Se apprenderemo bene questa logica di costruzione delle partnerships, potremo riproporla altrove – in altri settori e territori.
  • A quando il suo trasferimento nel campo business?

Un saluto!

Luca (con Nicoletta) 

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[1] Infatti Albert era fondamentalmente un apolide euro-americano ben consapevole dei pericoli nazional-imperialisti…
[2] Alludo qui ad una famosa intervista di Nicoletta alla Sig.ra Torrigiano che le parlò dell’Abruzzo che fu…
[3] Il lettore lo avrà capito da sé: non sono d’accordo con la famosa affermazione di Franco Modigliani secondo cui alle statistiche “o ci si crede, o non ci si crede”. Penso invece che non bisogna chiedere alle statistiche più di ciò che possono dare. Bisogna sapere come vengono rilevate ed interpretarle ad hoc, nel modo migliore. Nel caso specifico, dato il trascorrere del tempo ed i matrimoni misti (ho visto persino vendere dei bavaglini per bambini con scritto “Half-Italian”), mi pare inevitabile che la rilevazione statistica dell’universo censuario registri semplicemente le risposte degli intervistati. E in proposito, caro lettore, pensi forse che dopo tante discriminazioni, dopo essersi alterati i cognomi per non farsi riconoscere (Bartella che diventava Bartell, Rosa che diventava Roosa), o dopo averlo sostituito con quello del primo marito (come usano negli Stati Uniti tante donne) numerose/i americane/i di origine italiana (soprattutto se meridionali) non ci abbiano pensato due volte a cosa convenisse loro rispondere prima di affrontare l’intervistatore ufficiale? Se non altro, solo da poco gli americani di origine italiana sono stati considerati statisticamente “bianchi” a tutti gli effetti…
[4] Ne dico solo uno: quello di abbandonare la “trappola statistica” discussa nella nota precedente e di rivolgersi invece al “campo largo” di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno piacere a riferirsi alla storia e alla cultura italiane, dovunque si trovino, in ogni continente…