Mezzogiorno e Mediterraneo: imprese, innovazione e sviluppo

Mezzogiorno e Mediterraneo: imprese, innovazione e sviluppo

Due parole d’introduzione.

1

L’incontro con la storica “pensée de Midi”, quella di Gabriel Audisio e di Albert Camus (1936-54), è stata per noi una bella sorpresa, favorita fortunosamente dagli amici Wolf Lepenies e Thierry Fabre. Perché fino ad allora, non avevamo neppure l’idea che accanto alla sequenza iniziale Colorni-Hirschman (1932-44) a cui da gran tempo ci siamo richiamati, ne fosse esistita una seconda assai valida, per quanto d’ispirazione più letteraria e poetica, che filosofica e di scienza sociale.

Per quarant’anni, infatti, l’esperienza collettiva che oggi chiamiamo “il nostro Mezzogiorno”, si è collegata (in forme diverse e con risultati alterni, ma senza soluzioni di continuità) alle prospettive Colorni-Hirschman, impersonate da quest’ultimo per l’intero dopoguerra. Eppure è accaduto, infine, che, dalla sorpresa di cui si discorreva, sia scaturita senza sforzo, quasi spontaneamente, la struttura del mioProspettive mediterranee: la pensée de Midi e il nostro Mezzogiorno. Vale a dire: un primo capitolo su “La nuova cultura mediterranea” di Audisio e Camus; un secondo ed un terzo che riprendono dal punto di vista del Mediterraneo centrale i miei Il giuoco degli dèi e Carlo Cattaneo e lo spirito italiano; un quarto dedicato a L’homme revolté di Albert Camus; ed infine un quinto che accenna alla nostra esperienza ed alle sue prospettive attuali e future.

Il tutto, naturalmente, “situato” (avrebbe detto Camus) – ovvero visto dal Mezzogiorno, in una logica di sviluppo e di democrazia. L’intenzione di questo libro è stata, infatti, di incrinare il nostro isolamento
mediterraneo (causato ad un tempo da ragioni storiche di lungo periodo e dall’imbottigliamento nord-sud, tipico del nazionalismo italiano, e di quello europeo), acquisire la lezione storica di “la pensée de Midi”,

aprirsi la strada in altre direzioni mediterranee (incluse quelle semitiche – ebree e musulmane), riproporre il proprio punto di vista e rilanciarlo, soprattutto tramite gli “italici” del mondo – da Audisio e Tamburri, a
quelli dell’intero Occidente ed oltre.

Con ciò alle spalle, oggi puntiamo innanzitutto ad un successo pratico, high tech, privato d’interesse
pubblico, che generi un “effetto richiamo” rispetto alle numerose iniziative imprenditoriali, amministrative
e culturali intraprese in passato, produca un “magnete” d’incivilimento cattaneano- colorniano che risulti via via concretamente attraente per tutta l’area mediterranea che ci circonda dai quattro punti cardinali (ed
oltre), e che faciliti così la sua affermazione anche teorica, urbi et orbi. Esistono, inevitabilmente, più strade (e quindi più prospettive) mediterranee: la nostra che oggi presentiamo è interessata a conoscere le altre; ed a discutere con esse il da farsi, anche partendo dai loro specifici angoli di visuale…

*Il primo paragrafo di questa Premessa è stato scritto a mo’ d’introduzione per l’incontro di Palermo del 30 settembre
2023. Il secondo ed il terzo sono stati aggiunti il 26 ottobre, al momento dell’assemblaggio e della collazione dei testi
del presente librettino.


2
Uno dei meriti principali dei due volumi di Jeunesse de la Mediterranée (1935-36) di Gabriel Audisio (che avviano l’‘ouverture’ del mio Prospettive Mediterranee) risiede, se non erro, nella capacità di osservare il nostro “mare di mezzo” partendo dalla sponda africana, piuttosto che da quella europea; e nel sostenere nello stesso tempo, vigorosamente, l’unità del Mediterraneo. “So e ripeto – ha scritto Audisio (in un passo utilizzato, non a caso, come ‘manchette’ del mio libro per “South Innovation 2023”) – che i paesi del Mediterraneo sono sempre stati fatti per aggregarsi l’un l’altro in modo così naturale come la vite all’olivo”.

E’ un angolazione inconsueta (ed anche, in un certo senso, provocatoria) che mi ha permesso di richiamare alla memoria, in modo inedito, parte del mio lavoro precedente, e di costruire di conseguenza il
ragionamento di Prospettive Med riferendomi alle due sponde del Mediterraneo centrale. Per molti di noi non si tratta di un punto di vista abituale. Anzi, per la verità, si muove in controtendenza rispetto ad una tradizione millenaria caratterizzata da una scarsissima considerazione e curiosità dei cristiani verso i musulmani e viceversa. Posso io stesso testimoniarlo partendo dalla mia adolescenza catanese, fino ad arrivare a ieri – quando parlando di “traffici e mercati” con la Tunisia, Alessandro La Grassa, dirigente del Cresm che ha co-organizzato il nostro Convegno, ha aggiunto tuttavia di non possedere in proposito nessun ragionamento prospettico.

Mi è sembrata un’affermazione sorprendente, paradossale (ma come – mi son detto? Siamo venuti apposta da tutt’Italia a Palermo proprio per discutere di prospettive mediterranee…). Eppure è così. Proprio per questo mi è sembrata un’osservazione veritiera, tale da meritare (colornianamente) una pausa di riflessione. Come colmare dunque (almeno in parte) questo “vuoto pneumatico” di cui finalmente siamo costretti a prender coscienza? Di libri utili sull’Islam ne esistono molti. Ho scelto di dare un’occhiata ad uno autorevole – Europa barbara e infedele. I musulmani alla scoperta dell’Europa – dello storico inglese Bernard Lewis (Mondadori 1983), che mostra già nel titolo l’inversione nell’angolo di visuale di cui si discorreva.

Per farla breve. Tutti sappiamo che spesso, nel vastissimo mondo musulmano (oltre 1,3 miliardi di persone), si studia già da piccoli il Corano. Fin dai primi secoli – ha scritto Lewis in proposito (p. 50-1) – “la visione musulmana del mondo si reggeva su una fondamentale divisione dell’umanità tra la Casa dell’Islam e la Casa della Guerra. […] Così come un solo Dio in cielo, non può esserci che un solo sovrano e una sola legge in terra. La Casa dell’Islam è concepita idealmente come un’unica comunità, retta da un unico stato.

Guidata da un unico sovrano […] E’ nello spirito della legge islamica, comunque, che non possa esistere
permanentemente alcun’altra comunità organizzata al di fuori dell’Islam, giacché secondo il musulmano, l’umanità intera si convertirà all’Islam o dovrà soggiacere al suo dominio. Fino a quel giorno è sacro dovere dei musulmani lottare perché tale obiettiva si realizzi.” E così via.

Come stupirsi allora che dopo un’intera epoca coloniale e dopo il declino dello strapotere americano postbellico, la eco possente di questo “passato che non passa” tenda a riemergere? Schematizzando: è noto che nel mondo antico politeista esistevano molte guerre, ma non erano guerre di religione (Bettini 2014, Meldolesi 2015, 2023, Cap. 14). Pur caratterizzate da numerosi intervalli, queste ultime tuttavia, una volta entrati nel monoteismo, sono state lunghissime e sanguinosissime. In seguito, una parte del mondo cristiano ha vissuto un’epoca di secolarizzazione e di ripensamento religioso, che non ha avuto però una vera controparte ad essa corrispondente nel cristianesimo ortodosso e nel mondo musulmano.

Altro che incomprensione o scarsa considerazione! Ci troviamo di fronte ad una tendenza millenaria alla diffidenza inveterata ed al disprezzo: un grande problema collettivo predominante su ambedue le sponde del Mediterraneo che, nello stesso tempo, continua a scontrarsi con un’incapacità inveterata a capirsi ed a capire, con una pretesa palese e sempre ripetuta dell’Occidente che gli altri popoli si comportino come noi.

Evidentemente non è così. Ma ciò spiega perché, nonostante la successiva guerra d’Algeria, l’incipit di Audisio e di Camus (poeti e letterati) accennato più sopra risulti ancor oggi così attraente per noi: perché unisce insieme un grande potenziale e un desiderio inappagato…


3
Veniamo al punto. Mi sono chiesto: queste poche considerazioni possono anche aiutarci ad uscire dalla psicosi in cui molti di noi sono caduti dopo il massacro di civili ebrei inermi del 7 ottobre 2023 (il più grave
dopo l’Olocausto della Seconda guerra mondiale) – un accadimento orribile che, a prima vista, sembra frustrare definitivamente le nostre speranze?

Non solo possono, debbono – risponderei. Per tante ragioni. Ne cito solo alcune. Perché, non a caso, tale tragedia mostruosa ha richiamato alla mente il “9/11” americano, ha spinto il Presidente Biden a chiedere agli israeliani di non commettere gli errori compiuti a quel tempo dagli americani. Vale a dire, di non cadere nell’ira che spinse la Casa Bianca all’invasione dell’Iraq, al massacro di Mosul e così via. Perché, come accenno nel libro, fu proprio il dramma del 9/11 a suggerirmi inizialmente la perlustrazione che è culminata infine in Prospettive. E perché, nel mio piccolo, vorrei, mutatis mutandis, che ora quell’impulso si riproducesse come modesto contributo a favore del popolo ebraico.

Il 21 ottobre, e dunque due settimane dopo il massacro, ho ricevuto da Gerusalemme questa mail da Baruch Knei-Paz, un professore di scienza politica, vecchio amico di Albert Hirschman (e nostro).

Dear Luca and Nicoletta,

How kind of you to write. We much appreciate it.

The situation here is quite awful. We have suffered a terrible blow, not only in terms of the many lives lost and maimed but also in terms of a horrific collective moral blow to the ethos of this country. It is a trauma. And it is far from over.

There will be a massive invasion of the Gaza Strip though what form that will actually take is uncertain. And there is also the unhappy prospect that there will be hostilities on our northern border with Lebanon and Hizballah. And no one knows how to save the more than 200 hostages still held in Gaza (two, with American citizenship, were released last night). It will take a long time before all this is over – and the overriding question is: what happens after we have managed to destroy Hamas? Who will be responsible for Gaza? But the US and west European countries have been
very helpful. Biden has been outstanding; he came here not only to express support but to warn us about pursuing unrealistic policies. Nevertheless, I don’t trust our incompetent Prime Minister to behave sensibly. It’s Hamas of course who are responsible for this slaughter of innocent people; but Netanyahu facilitated the disaster by making every strategic and political mistake. The only good thing that will come out of all this is that he will be thrown out eventually.

We and family are OK despite having to spend many moments in the shelter while rockets from Gaza fly over our heads. Huge numbers of young Israelis have been mobilized by the army, including one of my granddaughters. These are unhappy times…

Thanks again for your concern.
Baruch

Dunque, dopo 75 anni di conflitti in Palestina siamo giunti a questo punto. Ma ha senso interrogarsi su “chi ha fatto fallire la pace” (cfr. il Corriere della Sera del 25 ottobre)? In un certo senso sì, perché la ricostruzione minuta dei tanti tentativi andati a vuoto può aiutarci a capire le speranze (frustrate) e gli errori (commessi). Lo stesso Knei-Paz mi ha raccontato che Albert Hirschman lo aveva invitato a casa sua per godersi insieme alla tv l’accordo di Oslo tra Rabin e Arafat…

Eppure dopo tanta acqua passata sotto i ponti bisognerà pur far mente locale sui fondamentali (per usare il linguaggio dell’economista). Vale a dire: fin dalla fine dell’800 il movimento sionista incoraggiò i primi ebrei a trasferirsi in Palestina. Tale processo prese consistenza tra le due guerre (anche Eugenio Colorni vi partecipò brevemente: sulle orme del cugino Enzo Sereni, oggi eroe di Israele). Dopo l’Olocausto quel movimento divenne irresistibile e condusse alla fondazione di Israele.

D’accordo. Ma non dobbiamo dimenticare che l’ideologia sionista israeliana (confermata peraltro dall’ascolto serale di i24 la tv non-stop di Israele) è stata – ed è – basata sul recupero delle terre più ampio possibile e sul ritorno degli ebrei in Palestina più numeroso possibile. E che l’attuale governo è senza dubbio il paladino più estremista di tale politica, rispetto all’intera storia di Israele. Diamo allora un’occhiata al popolo dirimpettaio – quello palestinese. Come è noto Nakba, la catastrofe, cade il 15 maggio, in ricordo del giorno successivo a quello della fondazione di Israele (14 maggio 1948). Comprensibilmente, il pericolo dell’evizione è sempre presente nella vita quotidiana dei palestinesi, scandita peraltro da una religione guerriera. Come non aspettarsi che nel tempo tali sentimenti “assoluti” – ebrei da un lato e palestinesi dall’altro – non creino una spirale di odio, di disprezzo reciproco e di violenza senza senso, e senza fine?

Non è vero forse che nell’era del declino dello strapotere americano quel pericoloso focolaio (insieme a molti altri) tende ad espandersi regionalmente, e verso altre contrade? Che se, dopo l’Olocausto, è impossibile per i democratici occidentali voltare le spalle a Israele, non è possibile neppure pretendere la resa incondizionata dei palestinesi? Che spesso nell’intero dopoguerra i ben intenzionati (incluso chi scrive) si sono sentiti “ostaggio” di tali assurde, assolute contrapposizioni?

Per concludere: mi sento di riaffermare il punto di vista espresso con cautela dall’ultimo capitolo di Prospettive. Per inseguire il sogno di Jeunesse de la Mediterranée è necessario a mio avviso percorrere tre traiettorie collegate.1) Imparare a capire i popoli che non si riconoscono dell’Occidente e studiare politiche intelligenti adatte alle loro condizioni specifiche. 2) Tenere sotto controllo le rivalità interimperialistiche ad ogni livello impedendo loro di sfuggire di mano tramite sopraffazioni e capovolgimenti di fronte. 3) Impegnarsi a fondo in una politica colorniana – quella che rappresenta l’esatto opposto del “portare la
civiltà e la democrazia”, a lungo sostenuto dalle politiche coloniali e neocoloniali. E’ indispensabile infatti
impegnarsi nell’open innovation e nell’incivilimento a casa propria, soprattutto nelle zone meno affluenti, per poter essere anche d’esempio urbi et orbi, rispetto a ciò che è possibile architettare. E’la politica del magnete democratico.