Relazione finale Ornella Occhipinti

Relazione finale Ornella Occhipinti

Relazione finale

“Borsa di ricerca Anna Crocioni – A Colorni-Hirschman International Institute” 

 

Ornella Occhipinti Febbraio 2023

Attività e impressioni: tra difficoltà e possibilità

Il termine della borsa di ricerca Anna Crocioni richiede, come succede per ogni percorso, di aprire uno spazio di riflessione sul senso che l’esperienza ha generato. Prima di approfondire questo aspetto penso che abbia senso incardinare la mia esperienza entro il contesto personale in cui si è svolta. Quando ho iniziato il mio percorso avevo da poco conseguito il titolo magistrale e mi apprestavo ad iniziare un master in metodologia della ricerca sociale, con già in mente lo step successivo: prepararmi al dottorato di ricerca. Avevo disegnato una traiettoria lineare, lungo la quale erano segnati dei punti sequenziali da raggiungere. In questa linea retta, l’incontro con ACHII ha rappresentato unadeviazione imprevista. Dinanzi all’imprevisto potevo scegliere di non apportare deviazioni al percorso che avevo tracciato o decidere invece di arricchire il cammino con diramazioni che avrebbero potuto portare valore aggiunto all’intero percorso. Se sono qui a scrivere è perché, evidentemente, ho scelto la seconda possibilità. Imboccando la strada mi dirigevo verso un’esperienza che avrebbe richiesto la capacità di apprendere rapidamente strumenti nuovi, di svolgere attività altrettanto nuove e di dedicare attenzione all’ascolto e alla lettura di coloro che avrei incontrato lungo il percorso. La mia attività infatti si è, potremmo dire, divisa tra mansioni prevalentemente pratiche e attività maggiormente teoriche. Durante tutta la durata della borsa, infatti, mi sono occupata: dell’organizzazione e pianificazione delle riunioni quindicinali del direttivo; della realizzazione e invio di newsletter; dell’organizzazione delwebinar “Il nostro Mezzogiorno” e la presentazione del volume di Nicoletta Stame “Tra possibilismo e valutazione:Judith Tendler e Albert Hirschman”; dell’aggiornamento e cura del sito EFFEDDì. A queste mansioni organizzativo –comunicative si è affiancata la lettura e la riflessione di e su molti aspetti della ricca produzione teorica dell’Istituto. Fissando come momento essenziale l’incontro con Nicoletta Stame in via del Boschetto, ogni incontro successivo, avvenuto con gli altri componenti dell’Istituto, ha contribuito ad accrescere la mia conoscenza su qualche aspetto del pensare e dell’agire possibilista, di cui Achii si fa portavoce. La mia borsa è stata svolta totalmente a distanza con riunioni online, scambi di mail e qualche chiacchierata telefonica. Tale elemento ritengo che abbia in parte impoverito il grande valore che questa esperienza avrebbe potuto avere per me. Per tale ragione, frequentare, almeno nei primi mesi diattività, l’ufficio di Centocinquanta a Catania, ha rappresentato un elemento di grande importanza per la costruzione di un legame di appartenenza con la realtà dell’Istituto. La favorevole accoglienza che mi ha riservato Francesco Messina, grazie anche al suo entusiasmo nel raccontarmi di Luca Meldolesi e dell’Istituto, hanno reso il mio inizio sicuramente più agevole. Un’idea che mi son fatta in questi mesi dell’Istituto è quella di una realtàcomposita, eterogenea, complessa e di difficile inquadramento iniziale. Questo aspetto, per chi come me si apprestava a muovere i primi passi, ha rappresentato indubbiamente un elemento di difficoltà iniziale. È stato il tempo però a farmi comprendere come proprio quelle caratteristiche sono il vero punto di forza dell’Istituto. L’eterogeneità dellecompetenze, esperienze e provenienze che si incontrano all’interno dell’Istituto, li conferisce quella complessità chenasce dalla condivisione di prospettive e punti di vista differenti e che lo rende un luogo in cui si producono idee,progetti e relazioni. Il sentirsi accomunati dalla volontà di tramettere un modo di pensare e operare nelle proprie professioni e posizioni rende quell’eterogeneità proficua e arricchente. In ogni momento di discussione, dialogo e confronto che si è aperto con chi anima l’Istituto, c’è la possibilità di cogliere la multiformità e la duttilità con le quali il pensiero di Eugenio Colorni e Albert Hirschman si adatta alle diverse forme e applicazioni. La trasversalità di temi, discipline e prospettive che contraddistingue la produzione teorica di questi autori rende possibile una loro declinazione in contesti e condizioni diversi e per certi aspetti, almeno apparentemente, distanti tra loro.

Ecco, quindi, che le ragioni dell’iniziale difficoltà sono divenute nel tempo, la fonte di un importante insegnamento: la forza della conoscenza risiede nella capacità di pensare e agire al di fuori di schemi prestabiliti. Questa consapevolezza èdivenuta per me un monito oltre che la chiave per entrare dentro questa esperienza sapendo attribuire significato anche alle difficoltà. Per comprendere questo significato credo che sia opportuno riprendere le fila del discorso iniziato nella precedente relazione. In quella sede ho sollevato alcune questioni che, più di altre, hanno stimolato ragionamenti e aperto prospettive personali. Tra queste vi è quella del collegamento tra possibilismo e Mezzogiorno. Il Mezzogiornoricopre un ruolo di protagonismo entro la riflessione e la produzione teorica dell’Istituto. Fin dall’esperienza del Comitato per l’emersione del lavoro irregolare, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Sud diviene il protagonista della riflessione all’interno dell’Istituto. Il Mezzogiorno diviene rappresentativo di un contesto fitto di difficoltà e debolezze dalle quali, però, poter elaborare visioni e modelli di sviluppo in grado di produrre una crescita trainata dalla piccola e media impresa. In questa prospettiva, fuori dal mainstream di un Mezzogiorno improduttivo e arretrato, risiede una visione per l’appunto possibilista di un Sud capace di produrre sviluppo a partire dalle condizioni di apparente svantaggio.

Gli insegnamenti

Le diverse uscite di “Venti del Sud” che ho curato in questi mesi hanno contribuito alla comprensione della visione possibilista che ACHII vuole trasmettere sul Mezzogiorno che, nel corso del tempo, si allarga al Mediterraneo. Mi sono occupata degli ultimi quattro numeri e da ognuno di questi si evince chiaramente come le chiavi per lo sviluppo risiedano nella vicinanza e l’ascolto dei contesti in cui si opera, nella capacità di sfruttare le avversità facendole divenire opportunità, disporsi propositivamente nei confronti del cambiamento riuscendo a governarlo. Tra questi numeri, uno differisce dagli altri perché non racconta di un’esperienza imprenditoriale ma di un’esperienza di praticavalutativa in regioni del Sud del mondo. La valutazione rappresenta per me un campo di particolare interesse di studio,oltre che professionale e questa è la ragione per la quale richiamo questo articolo come uno di quelli che più mi hanno incuriosito. L’esperienza raccontata da Bruno Baroni traccia un percorso lungo il quale il possibilismo si intreccia con la valutazione, dando avvio a prospettived’azione, a mio avviso, molto promettenti. Essere chiamati a valutare programmi di cooperazione e sviluppo complessi e dall’ingente valore economico in alcune regioni dell’Africa rappresenta la cornice ideale per riflettere sul possibilismo nella valutazione. Come insegnano Judith Tendler e Albert Hirschman, interrogarsi sullo sviluppo di zone del mondo così svantaggiate e sprovviste spesso delle competenze e conoscenze necessarie, richiede, quasi obbliga, l’adozione di approcci e metodi che vadano oltre e aldilà di sole misurazioni o sintesi riepilogative di quanto realizzato rispetto agli obiettivi e ai risultati attesi. Laddove ci si trova a valutare misure in cui prevale una componente socio-organizzativa e attraverso cui si vuole stimolare l’empowerment delle comunità locali, bisogna dotarsi di lenti con le quali poter coglierele peculiarità del contesto. Cogliere le peculiarità del contesto, nella pratica, significa guardare e ascoltare chi lavoraall’implementazione delle misure, mentre lo sta facendo. Sulla scia dell’insegnamento di Judith Tendler, dinanzi alcontesto, bisogna porsi nella condizione di farsi sorprendere e di trarre apprendimenti, utili anche in vista di ulteriori progettazioni. Lasciarsi sorprendere non vuol dire altro che predisporsi all’inatteso, all’imprevisto. L’idea di base è quellaper la quale ogni azione progettuale, quando entra in contatto con il contesto avvia processi comunicativi e di scambio,come accade quando due sistemi sociali si incrociano. Dall’interazione, possono innescarsi meccanismi e processi forieri di risultati presso imprevisti e imprevedibili nei quali, il più delle volte, risiede la scintilla del cambiamento. Il tema della prevedibilità, della schematizzazione prestabilita di input, indicatori e output diviene più che mai attuale nelpresente che viviamo, in cui la pervasività dei Big Data e di algoritmi di intelligenza artificiale stanno automatizzandomolti dei processi decisionali pubblici. Affidarsi all’automatizzazione decisionale significa accontentarsi di correlazionitra variabili piuttosto che andare alla ricerca della causalità. Come ci ricorda Albert Hirschman “se non è animato dalla passione per ciò che è possibile, piuttosto che affidarsi a ciò che l’analisi fattoriale ha certificato come probabile, il ricercatore non sarà in grado di capire le situazioni concrete in cui le persone hanno risolto i problemi in cui si trovano”. Allora, come può fare il ricercatore per non cadere nella trappola della schematizzazione? Nel saggio diBaroni è indicata una via possibile: quella che chiama la “Pratica del cambiamento”. Basata sull’osservazione diretta e sulla riflessione degli operatori in campo, valorizza processi di learning – by – doing e di comunicazione dal basso verso l’alto. Inoltre, il coinvolgimento diretto del personale accresce la capacità di riflessione critica su quanto si sta facendo e facilita l’individuazione dei risultati positivi del progetto. Si tratta di un approccio che tenta, attraverso la stessa pratica valutativa, a produrre un cambiamento sistemico. Partire dal contesto, con le proprie conoscenze,competenze e risorse, rappresenta la base di partenza per una valutazione in grado di perseguire funzioni di learning, empowerment e sostegno ai processi decisionali, poiché è nella condizione di comprendere quali condizioni contestuali possono innescare processi di successo.

Nella mia, giovane, pratica valutativa ho compreso che l’ascolto del territorio è il passo imprescindibile per comprendere quali sono i contesti del progetto che vanno approfonditi e conosciuti. Conoscere le peculiarità, le risorse (presenti e assenti), le difficoltà che caratterizzano un contesto, mi ha permesso di individuare gli attori principali da attivare per l’approfondimento di dinamiche di processo. Parlare con loro, guardarli in azione, seguirne l’operatonel tempo, appare fondamentale per riuscire a cogliere l’evoluzione che il progetto stesso subisce nel tempo, adattandosi spesso acondizioni impreviste o modificandosi dinanzi a contingenze che richiedono deviazioni a quanto originariamente previsto. Dinanzi a questi eventi, se dovessi rimanere dentro lo schema obietti-risultati attesi, dovrei valutare negativamente tali deviazioni poiché non rispettano l’impianto progettuale. Eppure, in più delle volte è attraverso questiapparenti insuccessi che si producono cambiamenti sui destinatari e che il progetto si dimostra in grado di rispondere proattivamente all’emergente, spesso impossibile da prevedere. Mi sto occupando di povertà educativa e gli operatoriche ho ascoltato hanno raccontato di casi in cui hanno modificato alcune attività progettuali a fronte della risposta che hanno ricevuto dai destinatari. Se non avessero apportato quelle modifiche, quelle attività si sarebbero rilevate un fallimento. Invece, attraverso l’accoglimento dell’insuccesso, si sono messe in campo soluzioni in grado di trasformare la difficoltà in opportunità di successo.

La mia pratica valutativa è stata influenzata dalle letture di Hirschman e mi sono predisposta nei confronti degli interlocutori e dei contesti che ho incontrato con uno sguardo aperto al possibile. Utilizzando un approccio possibilista ho valorizzato alcune traiettorie d’azione leggendole come espressione di quella creatività, utile solo a condizione che siattivi dinanzi a difficoltà impreviste. Ho guardato il progetto come un inevitabile produttore di sequenze di sviluppi ulteriori, nei quali ho ritrovato quei due tipi di sviluppi potenziali di ogni progetto: imprevedibili minacce e rimedi insospettati. Adoperando questa prospettiva ho visto operare il principio della “mano che nasconde” ogni qualvolta il progetto è stato segnato da imprevedibili difficoltà che hanno reso necessario attivare meccanismi di risoluzione e di risposta che hanno modificato il corso delle azioni progettuali, modificandone l’impianto ma fornendo al progetto unapossibilità di successo. Ogni tipo di programma che opera per produrre cambiamento sociale interviene nel contesto preesistente con la volontà di creare nuove dinamiche; facendolo si scontra con l’esistente dando avvio ad una “costellazione unica di esperienze e conseguenze, di effetti diretti e indiretti” in cui si afferma l’essenza stessa dell’approccio possibilistico. Il possibilismo, infatti trova fondamento in tre concetti: 1) le benedizioni mascherate; 2) la dissonanza cognitiva; 3) le conseguenze non intenzionali dell’azione umana. Nel contesto in cui opero in accordo con l’idea per cui “il cambiamento possa avvenire anche grazio agli effetti collaterali […] di azioni umane”, ritengo che sia opportuno attribuire valore e rilevanza alle conseguenze non intenzionali. A tal riguardo mi viene in mente il casodell’azione progettuale che è stata modificata a fronte della risposta ricevuta dai partecipanti. L’atteggiamento di chiusura registrato nei destinatari non era rivolto intenzionalmente alla rimodulazione dell’attività, eppure ha dato avvioad un processo di risposta alla difficoltà che ha posto le condizioni per il successo dell’azione progettuale. La prospettiva possibilista in valutazione ritengo che possa fornire al valutatore gli strumenti utili a cogliere l’unicità del progetto, che deriva dalla peculiarità del contesto e delle relazioni che si instaurano tra gli attori in campo. Inoltre, coltivare quella che potremmo chiamare “cultura dell’insuccesso” aprirebbe la valutazione ad una reale e, più sostanziale, funzione di apprendimento e spiegazione di cosa realmente è successo e di come si sono svolti determinati risultati.

 

Esperienze possibiliste

Nella precedente relazione ho fatto riferimento a realtà locali che oggi, a posteriori, mi sembrano incardinate dentro l’idea di possibilismo. Non sono mai stata particolarmente vicina al mondo imprenditoriale, mentre, per curiosità einteresse personale mi sono più spesso trovata a ricercare esperienze di empowerment comunitario volte alla valorizzazione di luoghi o spazi attraverso la cultura. Dunque, guardando ad esperienze che ho incontrato in passato, mi èvenuta in mente quella di Officine Culturali, un’associazione nata a Catania nel 2009 con lo scopo di valorizzare il patrimonio culturale della città. Ha iniziato il suo percorso all’interno del Monastero dei Benedettini di San Nicolò, un sito UNESCO e sede del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania e ha consolidato la sua attività in città nel corso degli anni. L’associazione ha rappresentato in città, il primo esempio di interlocuzione e collaborazione tra pubblico e privato per la gestione di un bene pubblico, peraltro sede di un’istituzione. Un esempio di successo realizzato in condizioni di indubbia difficoltà e complessità, in cui la mano che nasconde ha operato tramite la mobilitazione di risorse creative in risposta alle difficoltà. La consapevolezza delle quali ha permesso di mettere in campo una serie di soluzioni possibili. Per farlo ha puntato sulle risorse che erano già presenti in quel contesto, coinvolgendo attivamente la comunità degli studenti che frequentano il Dipartimento. Con loro ha avviato un percorso di valorizzazione degli spazi facendo leva su processi partecipativi che hanno prodotto un cambiamento. Ho ritenuto che questa realtà sia espressione della prospettiva possibilista perché mostra la capacità di guardare al possibile oltre che al probabile, mettendo in pratica un processo di innovazione c costruendo ponti, relazioni e avviando processi comunicativi dal basso verso l’altro.

Conclusioni

In ogni relazione scritta fin qui ho sempre posto l’accento sull’aspetto relazionale di questa esperienza. Infatti, credo che il grande valore aggiunto di questa borda risieda nella capacità di innescare scintille a partire dall’ascolto e dal racconto delle persone che incontri durante il cammino. Questo elemento ritengo che rappresenti un grande punto di forza dell’istituto e credo sia quello che più di tutti andrebbe alimentato e sostenuto proprio per la sua possibilità diinsegnare il valore della multidisciplinarità e delle contaminazioni di visioni.

Inoltre, un aspetto dell’operato dell’Istituto che ritengo promettente, quanto necessario, è quello connesso alla costantecostruzione di relazioni e connessioni tra contesti diversi. Ammetto di non essermi sentita parte di questi processi o della progettualità dell’Istituto, ma nel corso di questo percorso ho sempre sentito molto forte il monito a guardare al dilà delle proprie singole realtà, per andare a vedere come intessere nuove sinergie e collaborazioni. Penso che questa vocazione permetta all’Istituto di creare ponti tra territori apparentemente ritenuti distanti, non solo geograficamente, etra realtà organizzative che per quanto simili o vicine spesso non comunicano tra loro. Da questi incontri possono crearsi nuove contaminazioni e nuove idee che confermano l’importanza della scoperta e l’apertura verso il possibile.